Per parlarvi della musica di William Lee Conley Broonzy, meglio conosciuto con il nome di Big Bill Broonzy ho deciso di iniziare dalla fine, perché è sì vero che le pietre miliari del blues ha iniziato a farle praticamente sin dai suoi esordi discografici alla fine degli anni '20, ma questo suo ultimo disco "The Big Bill Broonzy Story" inciso per la Verve (l'edizione uscì in un box di 5 lp), è un quadro esaustivo delle capacità tecniche ed interpretative del Bill solista, figura non solo di primo piano e centrale del Chicago blues, ma fondamentale per essere stato il musicista che ha fatto da anello di congiunzione tra il blues rurale e quello delle grandi città, fondendo in maniera del tutto personale folk, spiritual, work songs e ragtime. Ma l'interesse e il fascino di questo disco non si esauriscono "solo" qui, questo è anche un disco-documento di rilevante importanza storica che intervalla le 35 canzoni con gli efficaci e preziosi racconti di Broonzy che narra accompagnandosi con piccoli arpeggi alla chitarra, tra l'altro dimostra di essere un bravo oratore, anche se analfabeta. Le testimonianze qui raccolte attraverso le domande del musicologo Bill Randle (anche produttore di questo progetto) sono un interessantissimo affresco storico sul blues e sulla vita di questo impareggiabile musicista.
Per il disco Randle avrebbe voluto molti classici di Bill, ma alla fine cede alle richieste del bluesman e gli lascia carta bianca (e io aggiungo: per fortuna), così Broonzy decide di registrare dal suo repertorio le canzoni che lui preferisce o a cui è più legato, poi interpreta brani di altri musicisti a lui cari e alcuni blues tradizionali anche per ricordare la sua gioventù e questo, secondo me, è perché Broonzy voleva tracciare, in queste registrazioni, un percorso del tutto personale e non influenzato da terzi o dal pubblico.
Ora si può cominciare. Siamo a Chicago, in uno studio di registrazione, è venerdì 12 luglio 1957 ed è mezzanotte, Broonzy, in penombra, siede davanti a un microfono e imbraccia la sua chitarra acustica a cui è praticamente sempre stato fedele, fatto salvo per alcune incisioni con la chitarra elettrica negli anni '40, e l'uso del violino in altre occasioni.
Apre il disco la tradizionale "Key To The Highway" resa immortale proprio nella rivisitazione del 1941 dello stesso Big Bill che all'epoca era accompagnato da Washboard Sam al washboard, Jazz Gillum all'armonica e Ransom Knowling al basso. In questa versione con voce e chitarra (non è la prima variante in solo) è affrontata con profonda intensità e ci fa notare che la sua voce è ancora armoniosa e potente sempre ricca di sfumature soul e dimostra che non ha perso lo smalto di gioventù e anche la sua chitarra ha ancora quel tocco pulito ma deciso e quel suono brillante con cui si è sempre contraddistinto. Un altro classico di Broonzy è la sofferente "Southbound Train" dove il suo personale country blues si esprime qui ad altissimo livello.
Della tradizionale "Swing Low, Sweet Chariot" dai risvolti spiritual, ne aveva incisa una versione l'anno prima, ma questa è molto più ricca di sfumature e risulata decisamente migliore.
Dopo una serie racconti e di canzoni più intimiste si arriva alla divertita "Goin' Down The Road Feelin' Bad" dall'aria leggera e scanzonata, incisa qui per la prima volta, ma il successivo inedito, ovvero "Makin' My Getaway" ci riporta alle atmosfere più malinconiche che percorrono con maggior insistenza l'intero disco.
Dopo un breve racconto, il secondo cd, che lascia meno spazio al mood più intimista del primo, si apre appunto con due inediti più movimentati ovvero "This Train" e "Hush Hush", ma poi arriva una versione di "Backwater Blues" di Bessie Smith da lasciare a bocca aperta per forza interpretativa, splendida anche la cover di "Worried Life Blues" classico di Big Maceo. Altro pezzo ammaliante è "Kansas City Blues", tra le altre cover segnalo le mie preferite: "In The Evenin'", "The Glory Of Love" e "Louise Blues".
Altre interpretazioni magistrali che segnalo sono "Just A Dream" inciso la prima volta con il Don Byas Quartet nel 1954 e la tradizionale "Frankie And Johnny" ma ogni canzone di questo disco è imprescindibile, in quanto fa parte di un vero e proprio percorso di vita che, con gli aneddoti raccontati formano un continuum narrativo decisamente affascinante.
Il disco si chiude con la lunga e straziante canzone d'amore "Hollerin' The Blues".
Circa un anno dopo, esattamente il 15 agosto del 1958, il grande Bill muore per cancro, e con l'incisone di questo disco, che verrà però dato alle stampe solo nel '61, ha lasciato un vero e proprio testamento sonoro sia della sua vita ma sopprattutto del suo personale modo di intendere il blues.

Carico i commenti... con calma