Ragazzi, con un grande salto sull'Atlantico, ritorniamo nella "vecchia Inghilterra", faremo spesso la spola coi nostri "trip musicali" tra i due continenti, dalla sterminata produzione americana all'autorevole e prolifica fucina del Regno Unito, per volgere la nostra attenzione ancora una volta verso artisti scarsamente considerati. Questa è ancora l'ora per rendere omaggio a quella musica ispirata che non ha avuto per diversi motivi, riscontri importanti nella storia. Quindi è un piacere presentarvi un personaggio sui generis, misterioso e alquanto bizzarro come Pete Miller, al secolo Big Boy Pete, leggendaria figura underground, genietto antesignano e co-progettista dell'attuale filone psych-pop, uno dei responsabili promotori di quel fondamentale fenomeno storico-culturale che fu la "british invasion", compositore fin dai primi anni '60 di innumerevoli chicche saporitissime, tra cui questo "Return to Catatonia" - the further psychedelic adventures of Pete Miller - (Tenth Planet 1998), una raccolta di canzoni psych (durata 2-3 minuti) registrate nel 1967.

La copertina del disco presenta delle decorazioni in paisley arabescato indiano che la dice lunga su cosa ci attende all'interno. Big Boy Pete mette a frutto tutte le sue visioni, dato il relativo interesse verso lo show busines fine a se stesso e si dedica sopratutto alla sperimentazione di ogni forma sonora da inserire nella melodica struttura pop. Utilizza per suoi artefatti tutti i ritrovati dell'epoca, dall'effettistica, all'elettronica, all'utilizzo delle tecniche di mixaggio come il collage e le sovrapposizioni (scuola Beatles: erano in molti ad essere golosi di "strawberry" a quei tempi), per confezionare con scrupolosa artigianalità e grande maestria, grottesche marcette, cantilene flowers e motivetti scanzonati tipicamente british. Quattordici tracce che si aggiungono alle precedenti del gemello "Homage to  Catotonia" (Tenth Planet 1996). Non occorre analizzare ogni traccia singolarmente, poiché  l'opera va considerata nel suo complesso, essa si distingue sopratutto per essere una testimonianza storica. Notiamo tuttavia l'immancabile uso del sitar oltre alle chitarre e alla voce, da parte di Pete, sopratutto nei primi due pezzi, che si impone come citazione esotica, di uno stereotipo sonoro molto in uso nella summer of love londinese. Occorre in ogni modo attribuire ai Beatles e ai Rolling Stones la paternità di certi stilemi melodico-pop o psych, solo perché questi sono presenti all'interno di "Sgt. Pepper's" o "Satanic Majesties Request"? Tuttavia credo che la "maniera" di suonare un certo genere divenuta "moda", fosse insomma, patrimonio circolante alla portata di molti, un condizionamento reciproco che investiva tutti, indiscriminatamente. Alcune innovazioni formali (escludendo Zappa) vanno attribuite senza dubbio, agli illustri "scarafaggi" più che alle irruente "pietre rotolanti", ma del resto il nostro prolifico e insaziabile folletto beat-freak, nel 1967 era intento a dare forma a strane coagulazioni sonore lambicate, profumanti di esotiche spezie urbanizzate, negli Olympic Studios di Londra, mentre fuori una tempesta di acida pioggia psycho-love, imperversava copiosa senza precedenti. Come non essere tentati, noi oggi, a non farci coinvolgere da simile perturbazione?

Nel 1972 Pete Miller alias Big Boy Pete, si trasferì in California, dove aprì uno studio di registrazione per continuare la sua attività di compositore e arricchire la sua già formidabile produzione. Nel 1986 fu anche co-fondatore dell' "Audio Istitute of America" a San Francisco, una importante scuola di ingegneria del suono. Oggi, il suo nome è inserito nella lista della prestigiosa "The Rock and Roll of Fame" per meriti riconosciuti nella storia della musica rock.

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