Maestro di tecnica e padronanza strumentale, Bill Connors è uno degli "intelletti maggiori" della chitarra contemporanea, sia acustica che elettrica. Studioso autodidatta di Rock e Blues, ha trovato il suo contesto espressivo ideale nella nuova Fusion affermatasi a partire dai Settanta, imponendosi fra i migliori strumentisti del genere ed imponendo uno stile peculiare, un "canone" tecnico-timbrico che ha caratterizzato quell'intero movimento fino ai successivi, notevoli sviluppi cui si è assitito negli Ottanta e nei Novanta. Quando si pensa alla chitarra Fusion si pensa istintivamente a un McLaughlin, a un Di Meola, a un Holdsworth, (tralasciando chitarristi come Stern, Scofield ed Henderson che si sono affermati negli anni Ottanta), ma ci si dimentica spesso di questo fenomeno che alla nascita della Fusion ha contribuito in prima persona, suonando già con i primi Return To Forever in "Hymn Of The Seventh Galaxy" e impressionando pure un mostro sacro come Chick Corea.

Django Reinhardt è il suo mito, per sua stessa ammissione; in Django Connors riconobbe la presenza, seppur in stadio ancora embrionale, del genio creativo, dell'energia, del "fuoco" dei chitarristi Rock, e soprattutto la capacità di conciliare il proprio, solido e indiscutibile background tecnico con l'istintiva spontaneità dei suonatori della strada. Ma pur riconoscendo altissima dignità artistica al sound e ai moduli espressivi della chitarra classica, Bill accordò fin da subito la sua preferenza all'elettrica: "In contesti sofisticati e altamente sperimentali - ad esempio, nei dischi in cui ho accompagnato Corea e Stanley Clarke - ho sempre preferito usare la chitarra elettrica, che ha una timbrica molto più vicina a quella di uno strumento a fiato e si può perfettamente sostituire ad esso nel ruolo di strumento solista; posso variare la tecnica di fraseggio, applicare distorsioni, passare fra registri emotivamente diversi se non opposti, e le tecnologie oggi a disposizione consentono alla chitarra di percorrere strade in precedenza non battute perché sconosciute".

Lo spiritualismo di Corea e certa eccessiva cerebralità della sua musica portarono Connors, alla metà dei Settanta, al prematuro abbandono dei Return To Forever: è l'inizio di una carriera solista non così illuminata dalle luci della ribalta ma costellata di successi artistici notevoli; a partire dallo splendido "Theme To The Guardian" del 1974, testimonianza di una fase in cui registro acustico ed elettrico ancora convivevano integrandosi, come attestato dalla coeva collaborazione con Jan Garbarek per allcuni notevoli album (fra cui "Places, datato 1977, che vedeva la presenza del grande Jack DeJohnette). "Step It", del 1984, l'album che qui vi presento, è senz'altro il suo capolavoro degli anni Ottanta, prodotto dal collega Steve Khan e arricchito dalla presenza di Tom Kennedy al basso e di un giovanissimo Dave Weckl alla batteria, a formare un trio di eccezionale potenza e versatilità. Fra l'altro Khan non si limita ad osservare i lavori da dietro la consolle, ma è anche "special-guest" in "Twinkle", sfoderando un assolo dei suoi e rubando - anche se solo per poco - la scena al padrone di casa.

E' un album duro, aggressivo, estremamente muscolare e graffiante nelle parti di chitarra, un po' sulla falsa riga del quasi-contemporaneo "Metal Fatigue" di Allan Holdsworth ma senza quelle concessioni al cantato e alla forma-canzone che in quel caso stemperavano in parte il muro di tecnica (e, in parte, di freddezza, messo in campo dai musicisti). C'è molto Hard nell'approccio e nella ritmica, virtuosismi si susseguono ma senza appesantire troppo la matrice genuinamente Rock dell'insieme, tanto che anche i non-cultori della Fusion più sperimentale potranno apprezzare questo lavoro. C'è molto Blues, c'è molto della libertà espressiva e  degli spunti più "free" del Clapton dei Cream (non a caso la formula preferita è quella del power-trio, senza ricorso alcuno alle tastiere), c'è tanto gusto per le variazioni e il ricorso a fill batteristici di gran classe (determinante a questo proposito la presenza di un Dave Weckl, il migliore da questo punto di vista). A comporre un mirabile crogiuolo di suoni vivaci ed entusiasmanti, tanto da far dire al critico Gene Santoro, che commentò l'album al momento stesso della sua uscita: "la profondità maestosamente Blues del fraseggio e l'uso libero, anti-convenzionale quanto impeccabile del legato conferiscono alla chitarra di Connors la stessa portata emozionale del sax di John Coltrane".

Ascoltare in particolar modo la "title-track", col suo poderoso unisono chitarra-basso capace di ricordare molto da vicino il riff di "Black Hole Sun" dei Soundgarden (a conferma di quel piglio Hard che è comune a tutto il disco), e ascoltare - all'interno dello stesso pezzo - cosa fa Dave Weckl da 01:58 circa in avanti: una progressione da far mettere le mani nei capelli, qualcosa che, in tutta onestà, avevo sentito fare solo al Bill Bruford dei King Crimson (penso a "Discipline", soprattutto, e alla sua mostruosa sovrapposizione di tempi dispari). In "A Pedal" è invece il basso di Tom Kennedy a mettersi in luce, anche se il suo assolo stupisce forse di meno, per la presenza in esso di moduli già ampiamente sperimentati da Pastorius in avanti. Nell'insieme, "Titan" è forse il pezzo più notevole, ma Connors dimostra anche di saper adottare un registro più "dolce", come nella conclusiva "Flickering Lights".

Un disco da ascoltare e riascoltare. Cinque stelle a un'opera fra le più godibili ed emblematiche della Fusion (e del Rock strumentale) anni '80

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