La parola "undercurrent" suggerisce una corrente sotterranea, invisibile in superficie, ma dotata di un potente magnetismo, che attira e incatena i sentimenti più profondi. Un titolo davvero calzante, perché questa musica levigata e mai sopra le righe, alla lunga si rivela capace di trascinare e di assorbire l'ascoltatore molto più di qualsiasi sfavillante prova di virtuosismo strumentale. Per assonanza viene in mente anche l'ormai leggendario "understatement" anglosassone, quella tipica facoltà, sconosciuta specialmente a noi italiani, di dire senza dire, di comunicare molto senza per forza dover urlare e gesticolare. Ecco, questo disco, oltre che un capolavoro del jazz di tutti i tempi, è anche una splendida lezione di understatement da parte di due maestri dei rispettivi strumenti, incontratisi nel pieno della loro maturità artistica, ormai già consacrati, eppure entrambi privi della pretesa di primeggiare l'uno sull'altro, che pure sarebbe stata legittima. Specie per Bill Evans, entrato già nell'èlite dei migliori pianisti jazz grazie ai suoi lavori in trio, ma soprattutto grazie al contributo dato a "Kind Of Blue", pietra miliare di Miles Davis. Ma anche per Jim Hall, per il quale si cominciavano a fare paragoni lusinghieri, per esempio con Charlie Christian, uno dei più grandi chitarristi jazz di un passato allora piuttosto recente.

Dalle scarne notizie biografiche sui due (intervista a Jim Hall) sembra che la proposta sia venuta da Bill Evans nel modo più semplice, tipo "Ti andrebbe di fare un disco, magari solo noi due in duo?". Quel che è certo è che la realizzazione fu così perfetta ed equilibrata che ancora oggi si impone come un modello di raffinatezza e, cosa più importante, si ascolta con il godimento assoluto che solo un disco senza tempo può dare, e questo non solo grazie alla tecnica ineccepibile dei due musicisti, ma anche grazie ad un "lifting" di registrazione che non fa apparire neanche una ruga in un disco che è pur sempre datato 1962. Come succede per i grandi solisti classici, che quando suonano musica da camera in duo (o in trio) dimenticano per un po' il loro narcisismo da primedonne e i loro sfoggi di bravura, così in questo saggio esemplare di "jazz da camera" il chitarrista è al servizio del pianista e viceversa, e per tutto il disco sembra di cogliere una tacita intesa nello scambiarsi le parti di solista e accompagnatore, spesso più volte all'interno dello stesso brano. Se Bill Evans esce allo scoperto con il suo tocco felpato, più classico che jazz, ecco che Jim Hall lo copre con note essenziali e staccate, e altrettanto fa il piano di Bill quando la chitarra di Jim sgrana le sue tenere collane di note perlacee (chi è abituato alle fragorose chitarre rock rimarrà un po' sorpreso dalla tanta delicatezza che si può estrarre da questo strumento).

La scelta dei brani è quella tipica degli altri lavori di Bill Evans: spiccano standards classici come "My Funny Valentine" (Rodgers-Hart) e "Stairway To The Stars" (Parish), più un delizioso valzerino firmato John Lewis ("Skating In Central Park" ), e altre melodie meno famose ma altrettanto adatte ad essere prese come spunto per un dolce e saggio chiacchierio tra pianoforte e chitarra. La sola e bellissima "Romain" è opera di uno dei due (Jim Hall), ma fin dall'introduzione pianistica si può notare che il Gershwin delle "Piano Songs" non è stato dimenticato dal nostro chitarrista. Ma è veramente impossibile trovare qualcosa che non va: di eccessi non se ne parla nemmeno, di noia meno che mai, nonostante che una cinquantina di minuti di musica dolce e melodica, di soffici "ballads" come "I Hear A Rhapsody" e "I'm Getting Sentimental Over You" possano far nascere questo timore.

C'è poco da fare: quando la tecnica è così assoluta e la sapienza nell'interpretare brani non sempre di prim'ordine è tale da trasformarli in altrettanti gioielli, allora si può anche fare a meno o quasi del ritmo, pur rimanendo nel jazz. Sublimato, dall'aspetto trasparente e quasi incorporeo, eppure grande jazz immortale.

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