"Film sull'amore, e il più fisico, ma opera di un cuore secco" (Cahiers du Cinéma)
Billy Wilder, si sa, è stato uno dei registi più influenti del Novecento, passato attraverso i generi cinematografici più disparati (noir, commedia, dramma, opere processuali) con una disinvoltura e una leggerezza (quasi) impossibili da descrivere. Fa parte con Howard Hawks, George Cukor ed Ernst Lubitsch (di cui fu iniziale sceneggiatore, e da cui imparò molto, se non tutto) di quegli autori la cui impronta è ormai da anni scomparsa nel cinema d'autore americano, troppo "pensato" per piacere piuttosto che "pensato" per raccontare, narrare, intrattenere.
"Arianna" (1957), tratto da un romanzo di Claude Anet, "Ariane", (1924), di cui esistevano già tre versioni cinematografiche inedite in Italia ("Ariane" (1931), che sposta l'azione da Parigi alla Germania; "Ariane jeune fille russe" (1931); "The loves of Ariane" (1931), tutto dello stesso anno e tutte dirette dallo stesso regista, Paul Czinner), segna la prima collaborazione tra Wilder e il suo sceneggiatore storico I.A.L. Diamond, con il quale scriverà, tra gli altri, "A qualcuno piace caldo" (1959); "L'appartamento" (1960); "Baciami, stupido" (1964); "Prima pagina" (1974).
E' un film magnifico, mettiamo subito le cose in chiaro, seconda tappa parigina dopo quella di "Sabrina" (1954) e seconda collaborazione con Audrey Hepburn, qui nel suo periodo più sfavillante. Come nella precedente opera anche qui la trappola d'amore gliela tende uno non più proprio giovanissimo, nel nostro caso Gary Cooper, già 56enne. Lei è la figlia violoncellista di un astuto detective privato (Maurice Chevalier, nel suo primo ruolo sgombro da canzoni, che si diletta a parlare un inglese delizioso con venature francesi) e s'innamora di un uomo che proprio il padre stava pedinando, Mr. Flannagan, un riccone che nonostante s'avvicinino i 60 fa ancora il farfallone con le donne (ne ha chissà quante in ogni città in cui alloggia), si dà alla pazza gioia tra festini e grandi cocktail e, forse per la prima volta, con la conoscenza di Arianna (la Hepburn, appunto) s'innamorerà davvero. Finale (quasi thrilling) da non raccontare, un mix di lacrime e risate come solo Wilder (e pochi altri) sapeva miscelare.
La leggerezza dell'intera opera, che dura 130', ma ne fa sembrare la metà talmente va veloce, è assoluta, e sono rimarchevoli alcuni dettagli. L'inno all'amore, che deve superare l'età e il censo, appare scontato ma efficacissimo, meglio sottolineare il concetto di "far l'amore" secondo Wilder: il prologo è un bignamino sull'amore a Parigi (che sembra quello sull'amore di Manhattan, dagli uomini alla città, che sarà poi l'incipit del film omonimo, 1979, di e con Woody Allen), ma l'amore nel film si limita a dei pudici baci, l'amore nascosto (come clandestini, dunque nascosti, sono i protagonisti) è alla base del film, che mostra e non mostra, fa vedere e non fa vedere, gioca sul volto ancora piacente ma inevitabilmente invecchiato di Gary Cooper con uso delle luci che ha dell'incredibile (fotografia di William C. Mellor). Nascondersi, ma la sensualità appare in ogni inquadratura, e la Hepburn è un vulcano di erotismo giovanile, se non anche fanciullesco, che ha, come spesso nelle commedie di Wilder, un fondo di amoralità ai limiti dell'indecenza.
Va detto, che fu proprio questo velo, che oggi appare fenomenale, a mettere in crisi i critici dei Cahiers du Cinéma (tra cui il futuro regista François Truffaut) tanto da apostrofare Wilder come un "cuore secco", arido. Tutt'altro, come il Cukor de "Il diavolo è femmina" (1935), riuscì a rendere sensuale una Katharine Hepburn in panni maschili (altro capolavoro assoluto), qui Wilder esalta la sensualità della Hepburn inquadrando fugacemente un braccialetto alla caviglia ("alla schiava") o le treccine innocenti che trasudano voglia d'amore, e di sesso, implicitamente.
A fare da contraltare la bonomia del grande Maurice Chevalier, più alcune gag che sono tra le migliori mai sceneggiate da Diamond e Wilder. In primis, il leit motiv dei suonatori tzigani, che accompagnano Flannagan ovunque, dalla gita in barca alla sauna (il motivo che strimpellano, e che sostiene tutto il fim, è "Fascination", un valzer apparso in un vecchio e dimenticatissimo film del 1932, "La casa della 56a strada", che si rifà a sua volta ad una canzone italiana del 1904, "Malombra", che si dicesse, nell'ambiente, portasse sfortuna), sino alla, celebre, sequenza dei carrelli con i liquori buttati qua e là nella stanza d'albergo del Ritz in una specie di ping pong tra i suddetti violinisti e un disperato Cooper alle prese con un messaggio (burla) lasciatogli dalla Hepburn mediante dittafono.
"Tutto questo risulta come immerso nel bagno di melassa del romanticismo apparentemente più disarmato: solo quella melassa, in ragione stessa della sua esasperata dolcezza, era vetriolo, e quel che ne esce è l'immagine spolpata e scarnificata della convenzione, il suo doppio spettrale, la messa in questione del cinema o, almeno, d'un suo ruolo di produzione, che consuma proprio in quegli anni, con la crisi e le trasformazioni finanziarie, le tappe della propria metamorfosi" (Alessandro Cappabianca, Wilder, Il Castoro Cinema).
Peccato, solo, per un uso dei fondali davvero povero (nelle scene in albergo, con la finestra aperta, ciò che dovrebbe essere una piazza parigina, è indistintamente un cartonato), ma è una quisquiglia a cui andò incontro anche Hitchcock in alcuni suoi film a inizio anni Sessanta.
Ne esiste una versione più breve, di 125', editata, chissà perchè, nel 1961. Purtroppo è quella ancora oggi presente nella versione in DVD in Italia.
Carico i commenti... con calma