Forse, il loro talento, non è mai stato valorizzato a sufficienza, o forse, sono loro che non si sono mai voluti piegare alle logiche del mercato. Oppure, molto più semplicemente, sono bravi e basta.

I Biohazard (il loro esordio risale ormai a quasi sedici anni fa, era il 1990), sono una band virtuosisticamente perfetta, capaci con poche note di trasmettere rabbia, grinta, carattere, voglia di vivere, di sopravvivere e di far passare messaggi, a volte forse un pò equivoci, ma pur sempre solidamente efficaci.
Evan Seinfeld (basso e voce), Bobby Hambel (chitarra), Billy Graziadei (voce e chitarra) e Danny Schuler (batteria) sono quattro ragazzacci cattivoni e geniali: sul finire degli anni Ottanta accordano musica e strumenti sul suono della periferia di New York utilizzando il linguaggio del rap (ma non quello caciarone e cafone dei tanti gruppi rap emuli sparsi un pò in mezza Europa, Italia compresa), ma la loro velocità è folle, e segue i ritmi del metal con in corpo la rabbia del più feroce e gagliardo hardcore.

Hanno potenzialità enormi: saper mescolare metal, rap e hardcore non è roba di tutti i giorni e in pochi lo saprebbero fare. Il loro esordio però, stranamente, lascia interdetti e un pò delusi: "Biohazard" contiene una manciata di canzonette e una perla ("Survival of the fittest") che però non convince i primissimi pioneristici fans. Si riscattano ampiamente col secondo album, "Urban Discipline", ma toccano vette altissime solamente con il terzo disco, "State of the word address", magnifico album che segnerà, paradossalmente, la fine dei sogni e della gloria: Hambel se ne andrà per conto proprio (intraprenderà una miserrima carriera solista), e il quarto album, "Mata Leao", oltre ad essere un solenne flop commerciale, si rivelerà ben presto vuoto e asfittico.

"State of the word address" però, è un piccolo gioiello che, se non definibile come capolavoro (ma poco ci manca), potrebbe essere benissimo qualificato come 'capolavoro mancato'. Finalmente scritturati da una casa di produzione famosa, la WB, il crossover perfetto e intransigente dei Biohazard riesce finalmente a trasformarsi in purissima delizia musicale: coerenti, e violenti, fino alla morte, e non si vergognano mai di dire quello che pensano: la title track è una feroce accusa contro certa ipocrisia made in Usa e viene sbattuta violentemente in faccia sia al pubblico sia alla critica (e giunge persino alle orecchie, spesso un pò sorde, del Governo Americano), mentre "Tales from the hard side", ribadisce il concetto della fusione fra rap, metal e hardcore. Tutto naturalmente, con grande eleganza e grande stile.

La cattiveria dei Biohazard potrebbe risultare, a tratti, persino insostenibile e sconvolgente (almeno per tutti quelli che si avvicinano per la prima volta a questo genere di musica), ma sono la grinta e la rabbia le chiavi di volta del loro successo che, come dicevo all'inizio, meriterebbe (o meglio, avrebbe meritato) un pubblico più vasto e meno di nicchia, soprattutto in Europa dove la loro arte è sempre stata pochissimo recepita.
Vivere e sopravvivere a New York è difficilissimo, ma ascoltare con calma e pazienza i bellissimi assoli chitarristici di Hambel mette sempre, anche dopo l'ennesimo ascolto, un briciolo di pelle d'oca. Non tutto fila liscio, e almeno un paio di brani sono più che altro catalogabili come semplici riempitivi, ma "State of the world address", volenti o nolenti, è ancora un album di grandissimo impatto e notevolissima resa.

Ma se amate i Biohazard, fermatevi qua: andare oltre e ascoltare i successivi album, vi potrebbe mettere tristezza e malinconia. Qui finisce la storia, e qui finiscono i sogni.

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