Non c’è volta abbastanza stellata, sulla città, per vincere la battaglia con il giallastro elettrico sparso sulle nostre notti. Un’imitazione della luce, nell’imitazione della notte.
Non c’è cielo abbastanza aperto, sopra queste teste brulicanti nel dedalo quotidiano, per evitarci la sensazione di essere comunque al chiuso. Come sotto una gigantesca cupola trasparente.
Sarà forse questo il motivo per cui mi sorprende scoprirmi ad ascoltare e riascoltare con un certo stupore queste canzoni fatte di niente, sospese ad un respiro che non ha fretta.
Come percorso da un desiderio di impossibile sintonia con gli spazi che evocano, con la morbidezza di nuvola della loro consistenza.
Non sono molto incline alla quieta contemplazione (o forse si, ma non ne ho il tempo, da troppo tempo) e non ho alcuna dimestichezza con scenari bucolici e tiepide rilassatezze.
E’ quindi un’esperienza quasi esotica, per me, l’incontro con questo giovane sconosciuto.
Avviene dentro lo spazio angusto di un negozio: entro per ritirare un disco di oblique, irrequiete e gustose traiettorie jazz e ascolto quello che Alessandro ha lasciato in sottofondo.
Esco con un cd in più nel sacchettino e una gran voglia di una porzione di silenzio per immergerci ‘sto Birch Book.
La bella copertina spartana, assecondandone l’indole, non rilascia altre informazioni sul disco, oltre ai nomi dei quattro musicisti coinvolti (tre più due ai cori) degli strumenti adoperati con delicata misura (chitarre elettriche ed acustiche, cittern (?) piano, registratore, tre tipi di arpe – mouthharp, jew’s harp,folk harp - xilofono, viola, percussioni) e del fatto che le 12 canzoni (a firma Bee) sono state registrate nel New England tra il 2002 e il 2004 per essere prodotte nell’estate del 2005.
Io posso aggiungere che nell’evidente parsimonia di mezzi dispiegati e nella durata della gestazione si rintracciano probabilmente alcuni indizi sulla natura di queste canzoni tra le quali ancora non so indicare una manciata di titoli preferiti. Perché scorrono naturali come un ruscello anche tra le pareti di questo ufficio finalmente silente, nell’ora della siesta.
Ecco: “Eglantine” una parentesi acustica al centro del disco, mi piace molto. Ma come preferirla alla “How The Hours” posta quasi all’inizio e che mi aveva catturato subito, con il languore sottile di un raddoppio delle voci nel ritornello sussurrato, alla melodia elementare ma micidiale, tratteggiata con una dolcezza d’altri tempi in “Easy to Live”, o al paesaggio che intravedo attraverso “Windows”, solcato dalla lieve scia del suono di un flauto, poco prima che un altro bozzetto acustico, “Birch Bark” segni la fine del più semplice dei dischi?
Mi resta una curiosità. Così faccio un salto sul sito e incontro la sua faccia: esattamente come me l’aspettavo. Appoggiato ad un albero, ci guarda mentre sullo sfondo un cane osserva un orizzonte segnato dal degradare di un prato.
Non ho molto altro da dire che questa foto non esprima con sufficiente chiarezza.
Canzoni fatte di niente, distese su un respiro che non ha fretta.
E scusate se è poco.
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