Sono tornati.

Dopo 18 anni di assenza dallo studio, i Black Sabbath hanno inciso un nuovo album; e, udite udite, con la formazione storica, eccezion fatta per il batterista Bill Ward, che ha abbandonato il progetto a causa di una non ben specificata "disputa contrattuale", ma egregiamente sostituito da Brad Wilk (Rage Against The Machine). Ed ecco dunque al basso e ai testi un inossidabile Geezer Butler, alla chitarra il sempreverde Tony Iommi, purtroppo in cura per un linfoma che lo ha colpito qualche anno fa, e dopo 35 anni di assenza da un lavoro dei Black Sabbath, un Ozzy Osbourne più redivivo che mai.
La produzione dell'album è affidata all'ormai onnipresente Rick Rubin, oramai padrone indicusso di production di una sequela infinita di band.

Ora, fatemi fare una piccola premessa: è un'opera di anziani e distinti (?) signori, non ha alcuna pretesa di essere l'album che cambierà le sorti della musica; di conseguenza, sebbene il CD sia disseminato di déja-senti, è assolutamente un valido prodotto, che suona Black Sabbath 100%.
Tutto questo discorso però può decadere nel caso della terza traccia "Zeitgeist": è palesemente una "Planet Caravan" parte 2, poiché tutto è similissimo all'indimenticabile canzone del 1970, e sinceramente m'ha fatto abbastanza torcere il naso.

Altre due canzoni che non mi hanno entusiasmato sono "Live Forever" e "Damaged Soul". La prima sembra uscita direttamente da "Masters Of Reality", ma si presenta abbastanza scialba e povera di idee; la seconda invece è pachidermica e abbastanza lenta. Forse anche fin troppo.

Fortunatamente i difetti finiscono qui, poiché i restanti cinque pezzi mi hanno convinto ognuno a modo suo. "Loner" è più movimentata, con linee vocali un po' più 'catchy' (passatemi il termine, ovviamente da prendere con le pinze); mentre l'iniziale "End Of The Beginning" e la finale "Dear Father" (quest'ultima con un buon testo), si incanalano nel classico sound Black Sabbath, lento e minaccioso (il minutaggio è elevato), senza annoiare o stancare.
"Age Of Reason" si assesta nella norma, con qualche momento saliente come l'intro di batteria affidata al già citato Brad Wilk, grazie al quale l'assenza di Bill Ward non è rimpianta.
Ma il mio pezzo preferito è il singolo "God Is Dead?" (Nietzsche ringrazia per la gentile citazione): supportata da un testo notevole, la canzone si dipana per quasi nove minuti, con il suo lento e minaccioso incedere, come presagio foriero di sventure, con alterni cambi di ritmo, fino a precipitare nel brusco finale.

Questo è dunque il ritorno dei Black Sabbath (ed anche il mio: manco da questo sito e non scrivo recensioni da due anni circa): senza tanto clamore, la band ha voluto omaggiare noi fan con un lavoro assai ben fatto. Lunga vita al Sabba Nero!

P.S. L'album si conclude in un modo a dir poco geniale: finita in fade-out l'ultima canzone, si sente il rumore della pioggia, ed il rintocco di una campana a noi ben nota...

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