Oggi le band che si definiscono propriamente metal vengono non di rado accusate d’eccessiva prolissità stilistica. Ironia della sorte, coloro che primi fra tutti il metal lo forgiarono, non si concessero (quasi) mai il lusso di dare alle stampe un album uguale al suo predecessore. Ed appunto, di questo “Technical Ecstacy” (1976) si possono dire tante cose, fuorché suoni come già sentito.

Ricordiamo inoltre che a partire dalla seconda metà degli anni settanta furono in parecchi, tra i maggiori esponenti del genere hard rock, a patire una impressionante involuzione stilistica (per quanto, in molti casi, si sia trattato piuttosto di una ricerca). Ed il fenomeno non risparmiò neanche il Sabba Nero. Anche loro, nel tentativo di rinnovare il proprio sound, dopo sei saggi da capiscuola, si concessero una battuta d’arresto. Diciamo mezza magari, sia considerando la necessità di un passaggio obbligato verso l’imminente rinascita, sia perché qualche pezzo è comunque rimasto nel cuore dei fan. “Dirty Women” su tutte, non a caso inserita nella tracklist del live della storica reunion. Di certo però fu arduo per un qualsivoglia aficionado sabbathiano farsi una ragione di questo repentino cambio di registro: “Sabotage” (1975), con i suoi riffoni di piombo, riecheggiava ancora troppo forte nelle meningi dei più sfegatati headbangers (che all’epoca non si chiamavano così, ma mi si conceda egualmente il termine). Se il successivo (e non per questo mai rivalutato) “Never Say Die” (1979) fu, oltre che riguardo la scelta dei suoni, anche un esperimento di alto livello compositivo, non altrettanto si può dire di questo lavoro.

“Technical Ecstacy”, prim’ancora che monotono, sembra essere piuttosto imbrigliato nel sound pastoso scelto dalla band, che ne smorza il taglio adrenalinico senza impreziosire d’eleganza un bel niente. “Back Street Kids” apre il dischetto, regalandoci già da subito questo triste responso. Niente male si, ma il sound che ne esce fuori è un ibrido dai geni prematuri, che avrebbe meritato almeno qualche altro mesetto di gestazione. Stesso discorso per  “Rock ‘n’ Roll Doctor” (di cui fu fatto pure un video) e “All Moving Parts”. Episodi non disprezzabili, ma sempre incompleti in qualcosa. Ora melodiche, ora cariche, sempre sul punto d’esplodere, esauriscono la miccia prima di fare il botto. Mette quasi paura quell’abominio che porta il nome di “It’s All Right”, in cui Bill Ward si improvvisa singer dell’ultima ora, facendoci quasi dimenticare tutte le sue doti di roboante ritmico dalla contorta spina dorsale. Sicuramente più azzeccate le aperture dei ritornelli di “Gipsy”, che la band avrebbe fatto meglio a ricalcare, se avesse veramente voluto progredire dalle proprie abusate formule.

Appioppo lo stesso un tre, perché alla fine il sottoscritto si considera un fan, e non mi riesce proprio di stroncarli. Sarebbe forse più giusto parlare di sufficienza quasi raggiunta, ma al cuor non si comanda (e le due stellette e mezzo non sono contemplate tra i voti possibili).

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