Introduzione:
Niente… questi cinque barbudos della Georgia continuano ad essere tremendamente bravi, senza tentennamenti o logoramenti ispirativi anche in questo sesto album. Il quale manco a dirlo suona schietto, sincero, passionale, onesto, dedicato, equilibrato, in una parola magnifico come e più dei precedenti. Stanno facendo ulteriormente scricchiolare la mia personale visione/classifica delle eccellenze southern rock, che sinora li aveva innalzati fino al terzo posto assoluto (dopo Atlanta Rhythm Section e 38 Special) ma ora non ne sono più tanto sicuro… i 38 rischiano di scivolare di un posto.
Contesto:
Siamo dunque giunti al sesto episodio in studio di una carriera all’inizio arrancante e sottostimata, poi finalmente involatasi col terzo album del 2012 “The Whippoorwill”. Ennesima vicenda musicale a buon fine che va a coronare l’impegno, l’energia, la costanza e la fiducia coi quali sono stati applicati talento ed ispirazione da questi artisti. I primi due album erano in realtà già da subito eccellenti, ma le difficoltà di accesso al grande giro da parte di queste musiche assai datate, per quanto squisite, hanno richiesto anni ed anni di inesausto impegno, concerto dopo concerto. Un tour de force continuo ed estenuante foriero prima di un seguito locale, poi nazionale ed oramai, e finalmente, mondiale.
Defunti gli Allman, tosti ma da una vita stereotipati e non ispiratissimi gli Skynyrd, poco produttivi anche se ancora in tiro gli ZZ Top, ora sono i Blackberry Smoke il gruppo senz’altro di punta del rock sudista. Da tempo pompano dischi al ritmo di uno ogni anno e mezzo e continuano imperterriti a farsi un mazzo così arrivando dappertutto (anche in Italia, una volta l’anno) a stendere i loro tappeti persiani sul palco, posarci sopra i loro antidiluviani amplificatori Orange, attaccarci gli strumenti e darci dentro per due o tre ore.
Il disco è uscito a febbraio di quest’anno, i precedenti lavori essendo a ritroso del 2016, 2015, 2012, 2009 e, staccatissimo, l’esordio del 2004. Al solito la copertina è a cura del Batterista Brit Turner che, malgrado il suo aspetto peloso, capelluto, barbuto, nerboruto e le notevoli sberle che con massima rilassatezza destina ai suoi piatti e tamburi, evidentemente ha un animo naif, romantico… pastelloso. Dopo uccelli ed asini stavolta tocca a lupi e crotali di essere effigiati. Very southern.
Punti di forza e lacune:
Il punto di forza primario degli Smoke coincide con la figura dominante del quintetto: Charlie Starr compone quasi tutto, canta quasi tutto, le sue chitarre si prendono l’assolo nella maggior parte dei casi e sicuramente il frontman ha fondamentale voce in capitolo anche in fase di produzione. La voce è bella, espressiva e il lavoro sulla chitarra sapiente, preciso, sobrio e al contempo appassionato. Grazia e grinta viaggiano insieme su e giù per la tastiera, qualunque sia il metodo ad essa applicato, quello tradizionale o quello “slide” con l’accordatura aperta. Io l’ammiro!
Però i compagni non stanno a guardare e lo aiutano alla grande, coesi e affiatati, intensi e disciplinati. E’ la maniera americana di fare rock, meno teatrale e imprevedibile di quella inglese, più appoggiata ed orchestrale… meno prime donne e più feeling. Quindi arrangiamenti corposi e “collettivi”, minimalismo diffuso negli interventi solistici e di contrappunto, solidi groove e massima attenzione ad insaporire la musica con qualche accordo insolito, qualche rivolto sorprendente.
In merito alle possibili lacune, ne trovo sostanzialmente una sola: anche stavolta ci si può beare all’ascolto di eccelso e sapido country rock blues americano, non potendo però gridare al capolavoro. Siamo di nuovo a un passo dal cielo, ma non all’optimum. Il vizio oramai congenito dei nostri è quello di far dischi sempre con cinque o sei canzoni eccellenti accompagnate da tre o quattro solo buone e giusto un paio di riempitivi. Il che rende i loro album interessantissimi ma non imperdibili, amabili ma non indispensabili, punti fermi ma non pietre miliari.
Ad ormai quattordici anni dal loro esordio discografico è più che mai vivo il desiderio, per chi li ama profondamente come me, che riescano alfine a partorire un paio di episodi epocali, devastanti, perfetti, e non importa che lo siano per una melodia irresistibile, od un riff imperiale, o per una sulfurea jam strumentale di quelle così frequenti in questo genere musicale. Insomma latita ancora la loro “Sweet Home Alabama”, ovvero “Midnight Rider” oppure “Green Grass & High Tides” per restare nel genere; un episodio che non faccia prigionieri ed arrivi a tutti e non solo agli addetti ai lavori, che sia pregno di un giro armonico irresistibile, oppure di un caracollare ed intrecciarsi degli strumenti spumeggiante, ovvero di un cantato e di un testo disarmante, o magari delle quattro cose tutte insieme. Ecco, ancora ai Blackberry manca ancora e sempre di comporre e registrare la canzone simbolo, quella che travalica tutte le sotto classifiche di genere e va ad incastonarsi senza remore nel grande calderone delle super canzoni immortali del rock. Per ora ne hanno a decine di (solamente) stupende.
Vertici dell’album:
I pezzi forti del lavoro cominciano subito coll’iniziale “Flesh and Bone”, che curiosamente parte in assolvenza e subito decide per un mood piuttosto aspro e puntuto (per gli standard della formazione), attraverso un pulsante ed ossessivo basso, qualche accordo sghembo nel coro, la Gibson di Starr oltremodo pastosa e Zeppeliniana nel breve assolo.
“The Crooked Kind” fa lavorare le due chitarre del gruppo in ritmica ben distinta e complementare, a’la Rolling Stones. Straniante il coro messo nel ritornello, con un ardito scivolamento di mezzo tono fra modo minore e maggiore, aduso ma sempre valido metodo per creare incertezza e quindi interesse.
“I’ve Got to This Song” farebbe invidia ai vecchi Eagles. Pare di sentirla, cantata da Glenn Frey… Ci sono pure un dolente violino (ospite il compaesano Levi Lowrey) e una risonante steel guitar (il solito Starr) a sottolineare il tranquillo e romantico caracollare del pezzo. Country rock al centodieci per cento, fatto con classe.
La rapida e variegata “I’ll Keep Ramblin” imposta subito un due quarti serrato sul quale le chitarre si armonizzano in un riff lungo e trascinante. La canzone si apre poi nei ritornelli, dopo il secondo dei quali devia in una spumeggiante fase gospel con coriste prevalentemente di colore che viaggiano a botta e risposta con un grintoso Starr. Le stesse voci negroidi circondano la chitarra solista nel lungo tripudio finale, rigonfio di organo Hammond.
“Seem so Far” è un altro magistrale country rock, guidato dai rintocchi di chitarra acustica e interessante soprattutto nell’inciso, molto lirico e con giro armonico per niente scontato.
“Mother Mountain”, di nuovo acustica, è lo squisito numero finale. Armonia a tre voci per tutto il tempo, pennate in primo piano, atmosfera rilassata da congedo, con tanto di rumori finali di un fuoco sotto le stelle.
Il resto:
“Run Away from It All” è intensa ma senza evidenti sorprese e fa capire, messa com’è per seconda dopo il già robusto e monolitico esordio di cui sopra, che questo lavoro dei Blackberry vuole essere un tantino più hard dell’abituale media.
“Medicate My Mind” è un country rock semiacustico riuscito nelle strofe, scontato nel ritornello, superbo nella porzione strumentale centrale tutta in controtempo, divertente e adescante.
La risonante “Best Seat in the House” è piuttosto lineare e “commerciale”, ariosa ma prevedibile se non per qualche botta e risposta ritmico delle chitarre. Ricorda un po’ certe cose del povero Tom Petty.
“Lord Strike Me Dead” non è particolarmente ispirata. Stavolta è il piano elettrico a condurre le danze, sicuramente è stata composta dal tastierista Brandon Still. Il ritornello farcito colle solite coriste non riesce a risollevarla più di tanto.
L’acustica “Let Me Down Easy” assomiglia a mille altre ballate americane che hanno in Woody Guthrie il loro nonno, Bob Dylan il loro zio e Gram Parsons il loro babbo.
“Nobody Gives a Damn” è molto Lynyrd, il pianetto rock’n’roll danza liquido e agile infilandosi in tutte le pause della voce. Starr qui la alza parecchio e prova ad urlare un po’, senza problemi.
“Till the Wheels Fall Off” è molto lirica e corale. Di classe il giochetto in armonia delle due chitarre nella, al solito, breve e misurata sezione strumentale.
Giudizio finale:
Forse il loro numero migliore, per adesso. Affermato da chi (per citare ancora gli acclarati mostri sacri del genere) non ha mai stravisto per i pur rispettabilissimi Allman e considera “Pronounced Leh-nerd Skin-nerd” e “Sweet Home Alabama” niente meno che capolavori, ma tutto il resto dei Lynyrd anche no. Meglio i Blackberry Smoke, con l’unico inevitabile “difetto” che sono venuti dopo, trent’anni dopo.
E allora? Il rock è morto, nel senso che ha finito del tutto di evolversi (più che altro di involversi, già dagli anni settanta…). Quello che di rock gira adesso a parte le ancora tante, vecchie scoregge che più o meno dignitosamente si auto coverizzano in giro e in qualche album risicando gli ultimi (doverosi) applausi, ha le sue eccellenze proprio in progetti come quello dei Blackberry Smoke: zero virgola zero originalità ma tanto cuore, riconoscenza, attenzione, rispetto, gioia di suonare.
Io mi spello le mani con loro: quattro stelle e mezzo per l’ennesima volta, con la speranza che prima o poi le mie personali cinque stelle piene le raggiungano.
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