Che il nuovo lavoro dei Bloc Party suonasse così smaccatamente pop e così diverso dai lavori precedenti della band inglese, era fin troppo scontato.

Privi di due membri fondatori (Matt Tong e Gordon Moakes), i Bloc Party oggi sono nelle mani dei restanti Russell Lissack e Kele Okereke, finalmente liberi di esplorare le loro influenze, elettroniche in primis. Ad accompagnarli ci sono Justin Harris, bassista, e la batterista Louise Bartle (è bene specificare però che quest’ultima non ha partecipato alle registrazioni).

Se i lavori solisti di Okereke, così in bilico tra la più classica garage d’oltremanica e l'EDM più melodica, ci avevano fatto capire molto sui suoi gusti musicali, l’ascolto di "The Love Within", primo singolo estratto da questo nuovo Hymns, è quella scontata conferma di come sarebbero diventati i Bloc Party ad oggi, nel 2016.

È vero, ci avevano già provato su Four e soprattutto su Intimacy, ma se prima potevano sembrare dei timidi esperimenti, qui su Hymns siamo di fronte ad una nuova band, che si è reinventata totalmente, senza pensarci due volte.

Tra chi già li chiama The Kele's back-up band, a sottolineare la predominanza delle già citate influenze del singer, il primo impatto con la musica di Hymns, infatti, è un senso misto di curiosità ed iniziale smarrimento.

Non c’è più quell’energica sezione ritmica di un tempo e si sente; in particolar modo è la batteria di Matt Tong quell'elemento la cui mancanza rende questa band a malapena riconoscibile. Sebbene rimanga quel retrogusto rock e strumentale, in ciascuno dei nuovi 11 brani all’interno di Hymns, non c’è ombra di canzoni come "Like Eating Glass", "Banquet" o "The Prayer". Non è rimasto praticamente nulla di quei Bloc Party, se non la voce, ormai super riconoscibile di Okereke, e qualche spunto melodico tipico del suo suonare la chitarra. A tutto ciò si somma un evidente amore per i sintetizzatori, mai così in primo piano come adesso.

Ebbene, tutto ciò rende Hymns un pessimo disco, privo di spunti, da evitare come la peste? No, lo dico tranquillamente.

Se in un primo momento sono rimasto spiazzato da questi nuovi Bloc Party, è altrettanto vero che i ripetuti ascolti hanno lenito il mio iniziale sconforto, in favore di un crescente apprezzamento per un disco, probabilmente di transizione, come si è soliti di dire in questi casi.

Hymns è piacevole da ascoltare, tanto quanto lo sarebbe se non avesse il nome Bloc Party stampato sopra e non ci fosse il bisogno di fare tutti quei discorsi affrontati in precedenza.

I suoi ritmi sostenuti, lontani dai fasti di Silent Alarm, sono evocativi e risaltanti della voce di Kele. Ritmi tanto semplici, quanto orecchiabili e anche quando i suoni si fanno lenti, pacchiani o simil-danzerecci, non si sente il bisogno di premere skip. Al contrario, chi scrive, si è ritrovato più volte a premere repeat per brani come “Only He Can Heal Me”, “Virtue” o “The Good News”, quintessenza di un indie pop/rock minimale e divertente,

Hymns è un lavoro nella norma, ingigantito forse dalle deluse aspettative dei più (che forse avrebbero preferito vedere i Bloc Party separarsi in maniera definitiva), ma logica conseguenza di chi cerca (o almeno ci prova) a rinnovarsi. È il tipico album che si piazza in quel limbo dove risiedono quei dischi che non possono essere capolavori, ma non vogliono essere disastri totali, dove è solo chi ascolta che sceglie se dargli un’occasione o intransigentemente starne lontano.

Un saluto ai lettori di Debaser!

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