01-Kenya 02-Turchia 03-Giappone 04-Cuba 05-USA 06-Argentina 07-Nigeria 08-Portogallo 09-Irlanda 10-Russia 11-Bhutan 12-Australia 13-India

No, non sto parlando di padiglioni dell'Expo ma di un curioso e interessante progetto di una band olandese con un nome che, nella nostra lingua, suona piuttosto bislacco: i BLØF. Un classico quartetto voce-chitarra-basso-batteria, con il cantante che si occupa anche delle tastiere, attivi da metà anni ’90, ben affermati in patria, sonorità pop rock melodiche. La proposta in sé non sarebbe particolarmente nelle mie corde e non rientra negli ambiti in cui sono più ferrato, ma quest’album del 2006, il più particolare ma anche il più grande successo della loro carriera, fa storia a sé. Con alti e bassi, belle intenzioni ed esiti non sempre entusiasmanti, “Umoja” è un’indubbia dimostrazione di creatività e carattere, e un valido spunto di approfondimento.

A quanto pare nella musica dei BLØF c’è sempre stata una componente “internazionale”, e con questo album hanno deciso di sfruttare appieno questa loro prerogativa, imbastendo una sorta di giro del mondo in tredici canzoni. Il giro del mondo questi fortunelli l’hanno fatto sul serio, i tre anni precedenti all’uscita di questo album li hanno impiegati viaggiando per tutti i cinque continenti e scrivendo canzoni con la collaborazione di artisti locali, per poi assemblare il tutto. Nessuna torre di Babele comunque, “Umoja” è un disco pop rock molto radiofonico con ritmi generalmente abbastanza tranquilli, di qualità generalmente buona e con picchi ottimi, “accompagnato” di volta in volta da vari “contorni” etnici; la lingua principale è ovviamente l’olandese che, mi tocca dirlo, tra tutte quelle che ho avuto modo di ascoltare è di gran lunga la meno musicale, piena di aspirate e suoni duri.

Talento e gusto melodico non mancano di certo a questi quattro olandesi, e il cantante Paskal Jakobsen può vantare un bel timbro, piacevolmente baritonale, caldo ed espressivo; queste buone qualità vengono espresse al massimo in “Wennen Aan September”, l’episodio americano, in collaborazione con i Counting Crows: ballatona di gran classe, intensa e teatrale al punto giusto, con un chorus perfetto. Una grande canzone, del tipo che riesce a trasmettere sensazioni positive e galvanizzanti partendo da una base malinconica, e che ribadisce un altro tratto caratterizzante di “Umoja”, ovvero che il meglio sta senza dubbio nei “lenti”, tra cui spiccano anche la cubana “Hemingway”, con le sue sonorità latine e acustiche dal fascino classico e senza tempo, la portoghese “Herinnering Aan Later”, fado crepuscolare in cui domina la voce suadente dell’ospite Cristina Branco e proprio in conclusione l’indiana “Eèn En Allen” , scandita dall’inconfondibile ritmo vellutato e sensuale delle tablas, con flauti e sitar a tessere una trama liquida e rilassante, un bel colpo di coda che, più di ogni altro episodio, si avvicina ad un’accezione classica di world music.

I due episodi “africani” aggiungono invece un po’ di vivacità, “Binnenstebuiten” (Kenya), lo fa proponendo ariose sonorità elettroniche accompagnate da cori e percussioni Masai; ne esce fuori un midtempo molto gradevole e accattivante, di ottimo impatto e spirito corale, mentre “Laag Bij De Grond” (Nigeria) punta su un energico funk rock con basso e sex a dominare la scena. Due aspetti iconici della musica del Continente Nero abilmente rappresentati e rielaborati, ma direi che le note positive si esauriscono qui: non che siano poche, metà dell’album è di ottimo livello, poi ci sono anche altre due pregevoli ballads, “Geen Tango” (Argentina) e “Aanzoerk Zonder Ringen” (Giappone), che però rendono l’insieme un po’ troppo zuccheroso, ma altri episodi danno veramente un’idea di cornice senza quadro. Uillean Pipes, Didgeridoos, inserti sinfonici e cori di monaci bhutanesi in canzoni povere di idee e di slancio non fanno la differenza, anzi, accentuano ulteriormente i limiti del contesto estraneo in cui sono inseriti; Irlanda, Australia, Russia e Bhutan rappresentano quindi il lato debole dell’album, in cui inserirei anche la turca “Mens”.

In quest’ultimo caso però non saprei quanto possa essere attendibile, “Mens” è l’episodio più tirato dell’album, un anthem arena-rock che mi suona forzoso e pompato, ma il genere è palesemente estraneo ai miei ascolti abituali e magari chi ne è più avvezzo la vedrà diversamente, e comunque non fosse stato per questa canzone non avrei mai scoperto quest’album. “Mens” è impreziosita dalla partecipazione del polistrumentista Omar Faruk Tekbilek, conosciuto grazie ai VAS; un ascolto che lascia una traccia per arrivare a un altro, da cui potrebbero partire altre tracce ancora; bello, vero? Pensare che la maggior parte della musica che conosco l’ho scoperta proprio così. Chiusa parentesi, direi che “Umoja” è senza dubbio un buon disco, da qualche parte tra le tre e le quattro stelle; ma si dai, arrotondiamo per eccesso, direi che se lo sono meritato.


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