Il paradiso. Come da migliore iconografia: cieli azzurri, prati in fiore e una luce dorata che sembra infondere magia nell’aria tiepida. Come in ogni paradiso che si rispetti, c’è una coppia giovane e bella che si ama. Lei, poi, è veramente bellissima: una creatura angelica dagli inevitabili occhi azzurri, capelli biondi e incarnato di porcellana. Tutto bene allora?

Ovviamente no. Il serpente, in questo caso, è la “vita reale”: la bellissima Elvira - che vuole essere chiamata col suo vero nome di Hedvig - è una funambola che ha lasciato il circo per amore. Lui è il tenente Sixten Sparre: sposato, padre di due figli, disertore dalle mani bucate. Ma ci arriveremo.

Il film è una festa per i sensi: fotografia splendida, colonna sonora sublime. Mozart, Concerto n. 21, ormai universalmente noto come “Elvira Madigan”. La coppia sembra felice, passeggia per i campi, lei è una visione vestita d’oro, i capelli sciolti, lui elegante in nero, gentile e cortese. Picnic romantico… ma la bottiglia di vino rovesciata, simbolo un po’ pedestre, ci ricorda che non tutto è idilliaco.

Scopriamo presto che la coppia è “illecita”, che la moglie abbandonata è infelice — o forse no — e che Hedvig non può lavorare perché lui è geloso, ma incapace di provvedere. L’estate sta finendo, i soldi anche. Resta una sola via d’uscita, e non è uno spoiler: il film inizia infatti con l’epilogo. Sixten spara a Hedvig prima di suicidarsi, ma l’ultima immagine ci risparmia la brutalità della realtà: lei sorride in un campo cercando di catturare una farfalla. Ironico, ma non viene percepito come tale.

Il film è basato su fatti reali e, come spesso accade, li abbellisce: i due amanti trascorsero insieme un brevissimo periodo, da fine maggio al 18 luglio 1889. Meno delle famose “nove settimane e ½”, a quanto pare tempo massimo per una relazione bollente. La fotografia eterea ci mostra il lato positivo della breve estate e ancora una volta sorvola sulla realtà - i corpi ritrovati tre giorni dopo l’omicidio-suicidio.

La contro-cultura sessantottina l’ha amato, vedendo nella fuga dei due l’apoteosi del libero amore. Ignorando, naturalmente, che i due erano incapaci di vivere nella realtà: quando finiscono i soldi, nei prati raccolgono e mangiano funghi ed erba prima di vomitare l’indigesto pranzetto. I figli dei fiori non colsero l’ironia.

Forse il matrimonio è la “tomba dell’amore”, come recitano triti cliché. Ma se l’alternativa sono nove settimane e ½ e un colpo in testa, quella tomba che però può essere calda, accogliente e duratura forse non è poi così male.

Carico i commenti...  con calma