"Oh Mercy" è uno di quei dischi che non ti aspetti, che pensi non sarebbero mai potuti arrivare e poi, tutto d'un tratto, te li trovi tra capo e collo senza nemmeno capire il perchè e il per come, però ti piacciono, e questo ti basta. Frasetta un pò troppo romanzata? Può darsi, ma assolutamente corrispondente a verità. Perchè non è opinione isolata sentire molti vecchi fans di Dylan affermare: "Dopo "Infidels", Bob non ha più imbroccato mezzo disco", e un po', per chi conosce "Oh Mercy", vengono istantaneamente i brividi.

Dall'incontro tra David Lanois (storico co-produttore degli U2, artefice del grande successo di "The Joshua Tree") e Bob Dylan, in pratica la leggenda del folk cantautoriale, non poteva che nascere un capolavoro, come puntualmente è avvenuto. In effetti, gli umori e le armonie musicali inseguite da Lanois Dylan le conosce bene: pochi lo sanno, ma fra Dylan e gli U2 videro la luce alcune interessanti collaborazioni musicali (per la band di Bono Dylan si improvviserà anche provetto suonatore d'organo). E così, quando ormai gli anni Ottanta stanno volgendo inesorabilmente al termine, la zampata leonina di Dylan appare, se possibile, ancora più vigorosa e incisiva. E mentre in Italia ci si chiedeva "Cosa resterà di questi anni Ottanta?" (poco, in verità), Bob Dylan cantava "Where Teardrop Falls". Capite la differenza?

"Oh Mercy" è un disco doppio, nel senso che presenta due condizioni musicali: ritmico e classicheggiante nella prima parte, più lento e intimista nella seconda. Dylan si rifà a vecchi amori di gioventù: dalle atmosfere alla Creedence Clearwater Revival, ai vecchi miti come Guthrie o Hank Williams. I brani sono tutti impeccabili e sontuosi, spesso addirittura spiazzanti: "Political World" è un blues distorto e affascinante, "Everything Is Broken" dovrebbe, e sottolineo dovrebbe, essere il brano cardine dell'intero album, ma, sebbene stupendo, non è nè migliore nè peggiore di altri, forse solo un pò più ritmato e incalzante. Ma sarebbe un errore ignorare ballate come "Ring Them Bells", tenera e stringata, veloce ed essenziale. Le emozioni ritornano prepotentemente in primo piano con la bellissima "Man In The Long Black Coat", e questa volta, come in una sorta di miracolosa trasformazione vocale, Dylan canta persino in maniera pulita e poco traballante. La voce è roca, ma chiara e puntuale, precisa nel tratteggiare suoni e odori di una storia umida e bagnaticcia, come lo è l'America cantata, sempre con partecipazione e mai con distacco, da un Dylan in effervescente stato di grazia.

La seconda parte, appunto. Pezzi lenti dicevamo, eppure ancora una volta stupendi. Si potrebbe accusarlo di inconcludenza e si potrebbe persino dire che tutti i brani di questa seconda parte un pò si assomigliano (ed in parte è vero), ma la freschezza compositiva e la ritrovata serenità musicale, impediscono qualsiasi critica negativa. "What Was It You Wanted" è bellissima, ma ad eccellere è la mestissima "Shooting Star", uno dei più bei brani firmati Bob Dylan da molti anni in qua. La mano di Lanois è presente, ma non è un peso: sotto la guida esperta di un produttore furbo e astuto, Dylan riesce finalmente a ritrovare la propria vena cantautoriale, seppur dolente e invecchiata (ma è prevedibile), rispetto ai tempi in cui sobillava le folle con "The times they are a changin". Si può dunque tranquillamente gridare al miracolo, peccato però che il successivo album, "Under The Red Sky", sia vacuo e a tratti persino pietoso. "Oh Mercy" è l'ultimo grande acuto di un Dylan che, per qualche attimo, sembra aver ritrovato la sua forma migliore. Che sciuperà, come spesso in questi ultimi anni gli è accaduto, in quattro e quattr'otto.

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