La città era New York. Era gennaio. Uguale ad adesso. L'anno no. Era il 1965, cinquanta anni fa. Con una rock band, un cantautore, registra Subterranean Homesick Blues. Faceva molto freddo al 799 di Seventh Avenue, ma nello studio di registrazione della Columbia il folk di Bob Dylan s’incendia. Diventa rock e scalda. Non tutti, all’inizio, furono felici di questo cambio di marcia. I puristi della musica d’oltre oceano pensavano che un personaggio come il loro menestrello americano non dovesse bazzicare il rock’ n roll: uno stile giudicato superficiale e adatto giusto per conquistare una ragazza, magari tra una birra e una risata. Ma come, Dylan era stato al festival di Newport; qui aveva reso pubblico un brano che non è una canzone ma la bibbia dei ragazzi, prima americani, poi di tutti i ragazzi del mondo, quella Blowin’ in the Wind riportata ormai anche in molti libri di testo, e il suo autore si dà al rock’ n roll? Questo pensarono e dissero alcuni critici. È il 1962 quando tutta l’America canta la canzone manifesto di un mondo nuovo che protesta: Blowin’ in the Wind. John Hammond aveva avuto buon occhio, e soprattutto buon orecchio, quando aveva scorto quel ragazzo gracile che diceva la sua accompagnandosi con una semplice chitarra acustica e un trespolo senza pappagallo, ma con un armonica a bocca che aspettava solo qualcuno che vi soffiasse dentro. Ma Bob non è auto referente. Si accorge che nel vento musicale dell’America e del mondo sta soffiando qualcosa di nuovo: lo stile dei Beatles e dei Rolling Stones. Quindi, fu del tutto logico il passaggio che Dylan intraprese verso il nuovo linguaggio artistico. Il folk, così come l’aveva imparato, era legato a schematismi che avevano bisogno di una scrollata. Pazienza se anche l’organizzazione manageriale dell’epoca non gli dà manforte: Bob Dylan va per la sua strada. E la strada si rivela quella giusta. In fondo erano gli altri che si erano impantanati in quel ragazzo che cantava l’epopea delle verdi praterie americane, delle avventure dei padri fondatori, dei carri delle carovane di agricoltori e predicatori in cerca di erba fienaiola (bluegrass) da accudire e indios da salvare. Lui, Robert Zimmermann, ormai Bob Dylan – omaggio a Dylan Thomas, professione poeta - , aveva capito che l’America era troppo giovane per avere un’epica classica. Gli States non potevano permettersela per un fatto puramente anagrafico: l’unico modo per averla, per forgiarla era quella di apparentarsi con l’Europa e i suoi movimenti. E oggi, in questo gennaio 2015, gli States – se non sono ancora omerici e shakespiriani – dettano comunque legge nella Cultura e nell’Economia. Bob aveva ragione ma, giusto per essere coerente, adesso protesta contro l’eccesso di americanizzazione, che pure aveva auspicato, operante nel mondo. Il Bob Dylan elettrico, probabilmente, ha avuto più influenza di quello acustico. Basti pensare, in campo internazionale, a Mark Knopfler – praticamente i Dire Straits - , o, giusto per restare nei limiti nazionali, ai nostri De Gregori (fu lui a ‘presentare’ Dylan a De Andrè che non conosceva il songwriter; restandone invischiato, tanto che per un certo tempo Fabrizio ne imitava la voce); anche Mimmo Parisi o Luciano Ligabue sono debitori al Dylan elettrico. Shadows in the Nights, questo il titolo del nuovo album che Mister Zimmerman ha promesso per i 3 febbraio del 2015: sarà ancora il Dylan che alimenta le pagine della Storia viva.

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