Nell'intento di offrire la possibilità di una più marcata conoscenza della collana Made to Measure distribuita dalla Crammed, viene qui proposto un album assolutamente dimenticato, nonostante esisterebbero diverse ragioni per le quali avrebbe meritato tutt'altro destino. Brion Gysin (1916-1986) rientra nel novero degli artisti eclettici che hanno profondamente e lungamente attraversato la cosiddetta stagione della "beat generation"; eppure tra tanti artisti 'di famiglia' Gysin spicca per la sua poliedrica attività di narratore, performer, poeta, compositore e pittore. Non tragga in inganno la quantità delle aree artistiche, poiché anche la raffinatezza e l'interesse dei risultati artistici sono superiori alla (modesta) fama.

In "Self-portrait jumping" troviamo una sorta di palinsesto delle multiformi versioni dell'arte di Gysin, sicuramente debitrice della lezione di William S. Burroughs - di cui fu allievo e amico -, ma anche di certo jazz sperimentale diffuso soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, della tradizione americana della "speaking song" e di una passione curiosa e divertita nei confronti di qualsiasi strumento espressivo che cerchi di affrancarsi dalla tradizione e dall'ovvietà.

L'operazione sperimentale di cui è frutto l'album deve a Ramuntcho Matta (figlio del grande artista cileno post-surrealista Roberto Sebastián Antonio Matta) la gran parte della realizzazione e dell' ideazione musicale, ma anche le collaborazioni di cui é arricchito l'album sono, in certi casi, strabilianti. "Kick", ad esempio, apre il disco, con un andamento 'jazzy' assicurato dalla meravigliosa pocket trumpet di Don Cherry; si rifiata qualche secondo per ritrovarsi immediatamente in una sorta di astratta "wave" che non ci stupiremmo di trovare in un disco dei Talking Heads; "Junk", infatti, per merito delle chitarre di Matta e di Yahn Leker e del biascicare dello stesso Gysin, ci induce perfino a muovere i piedi ritmicamente, mentre dalla finestra, qualunque sia il nostro panorama abituale, sfila il landscape di Manhattan.

Latina, giocosa e catarrosa la voce di Gysin (in contrappunto una sensuale Elli Medeiros) sillaba la sua "Stop Smoking", mentre noi immaginiamo facilmente il microfono avvolto nel fumo di un sigaro cileno (fornito da Ramuntcho Matta, ovviamente), ma tra un tossicchiare e l'altro, il tappeto sonoro dominato dalle congas risulta trascinante ed originale. "Sham Pain" ha un'introduzione ruffiana ed orecchiabile, ma dalla godibilità del brano emergono spunti notevoli sia nella tessitura 'funky' del basso, sia nella sottolineatura elettronica che richiama alcune delizie del penultimo Miles Davis. "V.V.V." e "Baboon" proseguono il discorso tropical-urbano, ancora impregnate da una profonda autoironia nei testi e nella composizione. "All those Years" è un brano recitato da una voce conturbante e profonda che trasmette nostalgia e rimpianto ("...& then again/ When I sit here & thing/ & thing of nothing/ Sometimes/ Your face appears/ When I Lie here/ & look ahead/ Ahead at/ Where I'm going..."), soltanto attutiti da una struttura sottostante moderatamente cadenzata.

Adesso veniamo alla corposa, interminabile suite "Dreamachine" (circa 30'), il cui titolo allude ad una delle strambe invenzioni psichedeliche operate da Gysin, una sorta di macchinario allucinogeno non chimico, ma tutto concentrato sullo 'sviluppo emozionale"; il recitato dell'artista è accompagnato da un supporto ritmico ossessivo ed ipnotico, con il quale è un'esperienza, per esempio, guidare in autostrada oppure stare ad occhi chiusi in una giornata di vento. Esiste anche un dipinto corrispondente dello stesso Gysin, un acrilico del 1962, la cui tessitura cromatica e compositiva ha l'intento di suscitare nell'osservatore visioni e sogni senza spostare gli occhi dal medesimo punto; l'esperienza sonora di Dremachine non è da meno. Ascoltare per credere.

L'album si conclude con due brani più tradizionali: "Somebody special", cantata da Matta, deve moltissimo (quasi tutto) a certe sonorità impure e sabbiose dei Velvet Underground o del primo Lou Reed solista; "The door" chiude l'album in modo decisamente 'free'; non a caso viene chiamato il magistrale Steve Lacy a trasformare in lunare e metafisico il gioco di reiterazioni elettroniche che altro non sono che il rumore di una porta che si chiude.

Perché interessarsi a questo album, allora? Perché combatte la banalità. Perché è frutto di uno sforzo rilevante di creatività e di sperimentazione. Perché potrebbe incredibilmente stregarvi. Perché se vi stregasse vorrete approfondire non soltanto la conoscenza di Gysin, ma di tutta la stirpe a lui affine. Perché è un ascolto non necessariamente impegnativo: dipende dallo stato d'animo dell'ascoltatore. Perché è un disco di una collana che si aspetta da voi uno sguardo piacevolmente sorpreso. E magari una visitina al vostro negozio del cuore (sarà una sfida improba recuperare il CD, ma se insisterete, sarete ripagati)

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