Voglio liberarmi.


Voglio liberarmi dalle mie abitudini, dal vino, dal teatro, dalla lotta con il lavandino che non funziona. Voglio liberarmi dall’amicizia, dai dischi, dal passeggiare nella città, dalla dolce malinconia di Settembre. Voglio liberarmi di me, dai mie dubbi, dalla mia bestialità, dalla mia goffa rivolta contro il mondo, dalla spietata sveglia del mattino. Voglio liberarmi del mio passato, del mio presente e soprattutto del mio futuro.


E allora sogno.


Grandi spazi aperti delle praterie, verdi colline in lontananza: un’ America ancora vergine. Violini zigani, percussioni Sioux, oboe e flauti che strizzano l’occhio. Giocano e saltellano in una festa propiziatoria senza fine, dove una monella combriccola di ragazzini gioca a rincorrersi; si ferma per un attimo e riparte più scatenata di prima. Lo sguardo indulgente di un capo tribù segue i lori giochi ed il suo canto li avvolge, benedicendoli.


Musica senza etichette, senza argini, senza nomi. Speziati profumi orientali si depositano su virtuosismi gitani, percussioni tribali puntellano accenni di folk deformato.


Il bosco è umido di fragranze primordiali; aromi d’oro ed acque di smeraldo; l’aria è densa come mosto di vino rosso. Fiori in boccio sui rami pregano per me e liquide ombre lentamente mi avvolgono, benedicendomi.


Avverto elettricità attorno me, il brulichio d’insetti è più sonoro, un vento pungente turba il muto torpore del mio essere e sento rombare il cielo sopra di me. Una saetta divarica le nubi, fra poco ci sarà un tuono. Sarà portentoso: il fulmine era molto vicino. Sento che sta per arrivare, ancora un attimo e…


…Domani sveglia presto, ho bisogno di soldi e solo col teatro non riesco a vivere. Caffè, una sigaretta veloce (magari due) e sono pronto per l’uso: il primo lotto di farina da scaricare è in via Olevano, se non sbaglio.

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