Se cercate su You Tube qualche filmato dei Buffalo Springfield, saltano subito agli occhi le figure di Stephen Stills e Neil Young: sempre in primo piano lo spaccone e carismatico texano, mentre lo scorbutico orso dell'Ontario è quasi sempre in ombra a cesellare riff nervosi e intricati, altrettanto decisivo però nell'economia della band. Appare poi spesso un uomo seduto sull'amplificatore, intento a suonare il basso voltato di spalle, sia per non farsi riconoscere dai funzionari dell'Ufficio Immigrazione (era canadese come Young, ma con problemi di visto), sia perché le sue abitudini chimiche stavano iniziando a procurargli rogne con la narcotici: quell'uomo era Bruce Palmer, bassista della leggendaria formazione californiana.
In quella band Palmer fu un gregario di lusso: eclettico e poderoso tessitore di pulsanti scansioni ritmiche, mai coinvolto a livello compositivo, e transfuga pochi mesi prima del sciogliete le righe dei compagni. Dopo un paio di anni di vagabondaggio artistico, Palmer ottenne un contratto per pubblicare il proprio debutto solista. "The Cycle is Complete" ancora oggi suona come una delle cose più aliene mai pubblicate da un musicista di estrazione "rock", venendo ovviamente ignorato da pubblico e critica (con la notevole eccezione di Lester Bangs), e il musicista canadese si avviò verso un oblio perdurato fino alla sua morte di pochi anni fa, interrotta giusto dalla collaborazione con l'amico Neil nell'altrettanto folle (ma decisamente meno geniale) "Trans". 

Affiancato da musicisti del giro Kaleidoscope, Palmer si avventurò con "The cycle is complete" nei meandri di una delirante jam session di un paio di ore, dalla quale estrasse 34 minuti di contorsioni psichedeliche spaventose, scisse dal jazz, dal folk e dal blues. Più che i tradizionali utensili rock, dominano strumenti quali oboe, flauti, violini, congas e organi, che si alternano senza soluzione di continuità in un sarabanda creativa ed esecutiva accecante, costellata da visioni sciamaniche di indicibile profondità. Un rito pagano dell'America primordiale oltre la stessa psichedelia, in cui la coscienza deflagra in una galoppata foriera di vertigini e catarsi liberatorie. Un processo di emancipazione che parte fendendo la febbre tropicale, la follia e i climi malsani messi in scena dai violini e dalle congas di "Alpha-Omega-Apocalypse", che passa attraverso le schegge di R&B impazzite di "Oxo", per poi sfociare nello splendore di "The calm before the storm". Nove minuti magistrali, in cui il basso fender di Bruce regge l'impalcatura: l'ingresso nell'oscurità della tempesta è rappresentato come metafora degli abissi della vita terrena, dove l'identità dell'uomo è sviscerata attraverso la sua ombra, come in uno spettacolo cinese. La musica lambisce le rive della perfezione e del silenzio, con le sue dissolvenze e le sue convulsioni ipercinetiche, e ci fornisce la capacità filmica di muoverci nello spazio e nel tempo, e di forgiare nel nostro io il senso della vita. Esaurita la sua missione, e raggiunto quello che Conrad definì "the farthest point of navigation", il ciclo può davvero dirsi compiuto.

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