Parte quasi intrigante, nello scenario al neon dei casinò. Una sorta di femme fatale disinibita (Bernadette Peters), d'una bellezza non artificiosa, imperfetta. Un Clint giovane e prestante, magnetico, ma ben presto riconducibile all'immagine canonica del macho, un po' folle ma buono, prevedibile e rassicurante.

Un episodio minore, direi minimo della vasta carriera del nostro. Una sorta di giustiziere in abiti civili, un cowboy che sostituisce il cavallo con la Cadillac rosa. Insomma, l'epica hollywoodiana nella sua fase declinante, quando l'enfasi e la fiducia in queste figure virili sembra essere ormai giunta al minimo assoluto. La versione postmoderna del thriller-commedia e del gangster movie propria degli anni '90, con Tarantino e i Coen, nasce forse anche come reazione a questi episodi ormai stanchi e insulsi (chissà quanti altri ne uscirono), in cui ancora si crede in una società con nette distinzioni tra buoni e cattivi.

Un film così in effetti appare come una parodia involontaria di questi schemi precostituiti, la banda di neonazisti nei panni dei cattivi senz'anima potrebbe essere un prodromo di quelli che sono i nichilisti del grande Lebowski. “Non credono in niente”. Filmacci così sono utili per capire quanto sia stata radicale l'opera di rinnovamento di certi registi successivi, in particolare nel superare l'impostazione ormai ammuffita con un eroe (per quanto leggermente deviante) e una marmaglia di cattivoni quasi comici (ma senza volerlo) che minaccia la principessa di turno. Soliti schemi, provvidenzialmente scardinati in seguito.

Di più. Questo episodio segna anche la fine di Clint Eastwood come personaggio action-thriller classico. La sua figura infatti anticipa in qualche modo le storie, il suo volto decreta a priori l'esito di una vicenda. Di fatto, metterlo in un film con un ruolo standard equivale a smorzare ogni possibile evoluzione diegetica, perché Clint viene prima delle trame, si pone al di sopra di esse. Potrebbe mai morire o perdere, in una vicenda così poco pregna? Gli esiti sono già segnati. Non a caso, questa è l'ultima volta per lui nei panni del protagonista d'azione.

Mi ricorda un po' i discorsi di C'era una volta a Hollywood. Quando il produttore (Al Pacino) spiega a Rick Dalton che, ogni volta, a morire non è il personaggio, ma l'attore. Ecco, qui vale il contrario. Eastwood non perde mai, non muore mai. E quindi non è più interessante, in questi ruoli.

Facendo un piccolo fast forward, mi piace confrontarlo brevemente con Un mondo perfetto. Sono passati solo quattro anni, ma l'ex pistolero ormai sembra molto lontano dal vestire i panni dell'uomo d'azione. È un vecchio cinico, che commenta da lontano la fuga dei protagonisti (sempre di road movie si tratta), e in qualche modo ostenta disinteresse per le cose umane. Sembra volerle guastare. Quasi che l'eroe abbia vissuto così a lungo da diventare il cattivo.

Il fiasco di un lavoro come questo può essere stato utile per indicare all'attore e regista la necessità di un cambiamento, una mutazione radicale che si evolverà, assumendo più complesse sfumature, in una sorta di cinismo profondamente umano ed empatico, in opere come Gran Torino etc.

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