Industrial pura e cruda, musique concrète, synth-pop, new wave.. e ancora funk, disco, house, techno, electro, ambient, idm. Sono soltanto alcune delle molteplici fasi attraversate nella carriera degli inglesi Cabaret Voltaire, fasi indubbiamente legate tra di loro da un importante denominatore comune: la sperimentazione. Alcune in modo più marcato (è il caso delle primissime e radicali piece reperibili sulle post-raccolte "1974-1976", "Methodology") altre meno (quanto sentito su dischi già più convenzionali come "The Crackdown") e col senno di poi frutto soprattutto della "mente" del chitarrista/tastierista/trombettista e poi producer Richard H. Kirk, che dimostrerà in seguito nell'altrettanto profilica e camaleontica carriera solista (stilisticamente una sorta di b-side del gruppo di Sheffield) quanto importante fosse per quest'ultimo. 

Stephen Mallinder al basso (dubbato, profondo), vocals (lascivi e demoniaci) percussioni (sporche e ossessive in pura tradizione industriale) e Christ Watson (rumoristica/nastri, poi silurato) completano la formazione in quello che è il suo periodo più florido, sia a livello artistico che produttivo, ossia dagli esordi della seconda metà '70 fino al pre-alleggerimento del sound che verrà ad ottanta inoltrati, con la pubblicazione di lavori discussi e tutt'altro che indimenticabili come "Code" e "Body and Soul". Proprio in questo periodo rientra "Red Mecca", chiaro testimone dell'operato voltairiano che racchiude in poco più di quaranta minuti gran parte degli stili di cui sopra, esplorati poi in una forma meno astratta e più quadrata che nel flusso libero e violento di questo terzo lavoro datato 1981, dove non è difficile scorgere, tra gli altri, strambi esempi di funk sfigurato e 'bianchizzato', disco music per lobotomizzati o un primordiale esempio di EBM molto simile a quella che verrà sviluppata da lì a poco da band come Front 242 e Nitzer Ebb.  

Sonorità malate, atmosfere alienoidi e drum-machines scheletriche gli elementi principali di un quadretto che è poi voce enciclopediaca di questi 'secondi' Cabaret Voltaire, meno violenti/distorti/provocatori sia rispetto agli esordi sia se confrontati ad altri complessi industriali - nettamente più spinti - dell'epoca (Test Dept, Throbbing Gristle, Coil, SPK..) ma invece molto vicini ad una seppur sbiadita forma canzone. Tuttavia nell'anima nulla è cambiato, si respira ancora aria di marcio. Fino all'asfissia: le pennellate disturbanti di "A Touch of Evil" (che richiama alla world music di Jon Hassell come ai vicini esperimenti industrial-dub targati 23 Skidoo), il battito punk di "Spread the Virus" e il funk meccanico di "Sly Doubt" (con tanto di accattivante e nerissima linea di basso) illustrano in egual misura sia la nuova pseudo forma canzone che l'indubbia originalità nel congiungere realtà differenti ma legate dal filo conduttore del sound industriale, e quindi dei suonacci lerci e metallici, dei nastri processati, del caotico nichilismo sonoro che è caratteristica della band. E la sperimentazione ovviamente, che passa anche nel modo in cui vengono utilizzati gli strumenti: i bongos di Mallinder ad esempio, che vengono adoperati più come forma di rumore che percussiva, e la chitarra di Kirk, deturpata all'inverosimile fino a renderla irriconoscibile e più simile ad un synth che una chitarra, e in "Red Mecca" essa ricopre un ruolo fondamentale, andando ad ereggere dissonanze schizoidi e deliranti muri sonori come notabile sulle cacofonie allucinate di "Red Mask", "A Thousand Ways" e "Split Second Feeling"

Spiccano inoltre il trip cosmico-dissonante "Black Mask" e il balletto dark-robotico dagli echi kraftwerkiani "Landslide", che testimoniano la passione di Kirk per tutti i rami dell'elettronica, che lo porteranno con gli anni a cavalcare sia i periodi minimal-synth, wave e electro degli anni ottanta che tutte le floride correnti ambient-techno, idm, house e techno del decennio successivo, con tanto di contratto su una gloriosa Warp Records ancora agli albori. E mi sentirei di rivalutare anche queste releases, ad esempio il grandioso "International Language" del 1993 a nome Cabaret Voltaire, ma evidentemente ormai una Kirkiana creatura, o i lavori solisti di quest'ultimo - molti, dispersivi, ma dalla qualità quasi sempre elevata -, spesso passati in secondo piano a favore del glorioso periodo industriale che fu della più nota band. Periodo comunque importantissimo, che "Red Mecca" più di tutti rappresenta a dovere. Essenziale.  

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