Camel – Snow Goose Re-Recording – 2015
Adrew Latimer non è noto quanto un David Gilmour o uno Steve Hackett o uno Steve Howe, ma è comunque il chitarrista di una delle band più importanti del progressive e del rock inglese. I Camel, la sua creatura, sono nati e cresciuti con linfa melodica dai tanti sapori, inettata, oltre che da Latimer, anche da un altro compianto genio musicale quale era Peter Bardens.
Verso la fine del 1974, la band preparava il terzo album, successivo a “Mirage”, accolto molto bene sia in patria, sia all’estero. Di quell’album venne apprezzata soprattutto la suite "Nimrodel/The Procession/The White Rider", ispirata ai racconti di Tolkien. Decisero così preparare un nuovo lavoro totalmente ispirato ad un’opera letteraria. Fu scelta la novella “The Snow Goose”, storia di un ipotetico incontro tra un guardiano del faro e un’oca delle nevi, sullo sfondo della guerra. Per l’album vennero preparati testi per voce narrante da distribuire nei vari episodi, ma, non appena l’autore della novella, Paul Gallico, seppe del disco, si infuriò non poco per non essere stato interpellato e decise di scucire qualche soldo di diritti d’autore. Latimer non ne volle sapere e il disco, così, divenne strumentale e con il titolo variato in “Music Inspired by The Snow Goose“.
Quello che fu il disco, per gli aspetti musicali, lo sappiamo bene: un’esplosione di melodia e sinfonia, anche grazie all’apporto di parti orchestrali inserite per dare voce ai protagonisti con duetti di oboe e clarinetto. Il sodalizio tra rock e orchestra fu certamente uno dei migliori esempi anglosassoni in tal senso.
Nel 2013, dopo una lunga malattia, una forma leucemica che quasi se lo portò via, Andy Latimer si rimise al lavoro e decise di proporre una re-incisione dell’intero album. Chiamò il fido bassista e vocalist Collin Bass, con lui già da molti anni, il tastierista Guy LeBlanc e il batterista Denis Clement. Tenne per sé tutte le parti di flauto, chitarre e tastiere, lasciando, per queste ultime, solo le parti di organo, moog e pianoforte a LeBlanc. Decise di non chiamare nessun fiatista, quindi, quelle che furono le orchestrazioni dell’originale, le troviamo sostituite da tastiere e VST, cioè il Virtual Studio Technology della Steinberg, sulla scia di una fortissima spinta alla digitalizzazione musicale.
Con queste premesse pare chiaro come dal disco sia sparita la componente primaria e fondamentale della musica dei Camel: l’anima. Quello spirito rarissimo, quasi unico che Latimer e soci hanno saputo infondere in ogni singola nota del passato, persino in quei pochi brani più banali e discussi della loro carriera.
La scaletta dei brani è, ovviamente, completamente confermata, però quattro brani si presentano rivisitati, con nuovo arrangiamento e con l’inserimento di brevi nuove parti, si tratta di “Sanctuary”, “Migration”, “Rhayader Alone” e “Epitaph”. Le parti inserite o rinnovate sono piuttosto buone, ma nulla che faccia gridare al miracolo, per certi aspetti solo un po’ di brodo allungato. A farla da padrone sono invece le chitarre, in bellissima evidenza e le parti di tastiere, molto ricche perché spessissimo in duetto Latimer/LeBlanc. Discreto il batterista, anche se il tocco di Andy Ward era davvero un’altra cosa.
Assieme all’evaporazione dell’anima, di quel caldo sapore cameliano, vengono a mancare alcune caratteristiche uniche e fondamentali dell’opera originale, la leggerezza, la vaporosità, il largo respiro delle tessiture, a vantaggio di una sorta di sinteticità del tutto e, di conseguenza, una freddezza e un senso di distacco fortemente penalizzante.
Il disco è stato stampato nel 2015 dalla nipponica Belle, unitamente all’intera versione live, per certi versi molto più piacevole e soddisfacente della parte in studio.
È comprensibilissimo che nelle condizioni di Latimer, tra trascorsi di salute, età e traversie di sorta, siano venute a mancare la fantasia, la voglia e la capacità di produrre materiale nuovo all’altezza del grandissimo passato della band e di quel nome costruito nei decenni, però operazioni come questa lasciano parecchio amaro in bocca, quel saporaccio di “Vorrei, ma non posso più”. E lo dico con una sofferenza infinita, per la quantità di amore che ho riversato sulle musiche dei Camel, ma, obiettivamente, un disco così, che si ascolta con aspettativa e curiosità e poi lo si butta nello scaffale a prendere polvere, non fa bene, no.
Il voto che metto, tre stelle su cinque, è chiaramente mediato tra la qualità di questo lavoro e la sontuosità della composizione originale, non deve assolutamente togliere nulla al concept originario, per il quale cinque stelle sono invero poche.
Sioulette p.a.p.
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