Gli inglesi Cancer nascevano agli albori degli anni novanta, il loro sound era una rozza commistione fra death e thrash-metal: niente di imprescindibile nemmeno per gli esperti del settore, e molto della loro popolarità si deve al fatto che nelle loro fila per un certo periodo militò quel prezzemolino di James Murphy, vera autorità in materia di death metal (da segnalare, fra le più note, le sue collaborazioni con act quali Death e Obituary).
Ma sicuramente ai Cancer non sarà piaciuta l'idea di essere riconosciuti/ricordati solo come una delle tante band (e nemmeno quella più importante) in cui ha suonato la chitarra James Murphy (hai detto Jimi Hendrix...), e così nel 1995 i Nostri prendono slancio e se ne escono con un album coraggioso: “Black Faith”, uno strano ibrido fra il loro sound più tipico e le tendenze riformatrici del periodo. Come molte altre band, fino ad un momento prima dedite a sonorità estreme, verso la metà degli anni novanta anche i Cancer non seppero dunque resistere alle lusinghe delle sirene dell'era “post-grunge” (quando il fenomeno nu-metal non era ancora esploso, né aveva potuto esprimere tutto il suo risibile potenziale). Difficile del resto rimanere insensibili all'onda d'urto che opere come “Vulgar Display of Power” e “Chaos A.D.” avevano generato qualche anno prima; il richiamo ad un sound fresco e diretto si faceva seducente più che mai, ma non è il linguaggio di un banale metal-core panterato che i Nostri decisero di adottare, come ahimè molti altri fecero precipitando nel baratro della stupida emulazione.
Il sound di “Black Faith” è sì moderno e potente, il groove travolgente, i riff bombastici, ma il quartetto britannico preferisce guardare verso i lidi del rock indipendente ed affrontare la questione con suoni ruvidi e “live”, ed un approccio “industriale” in cui campionamenti ed elettronica non trovano affatto spazio, ma in cui rimangono evidenti le lezioni dei maestri Killing Joke e Ministry (richiamati dal groove thrashaiolo, ma anche dal bel basso muscolare, sempre in evidenza, dalle vocals spesso effettate e dall'accostamento cauto a certe soluzioni armoniche vertenti alla dissonanza). Completano la ricetta un pizzico di grunge, qualcosa di Helmet, qualcosa di Corrosion of Conformity, sprazzi di stoner ed una bella dose di effervescenza seventies (tanto che l'album sembra anticipare certi umori che incontreremo l'anno seguente con “Swansong” dei connazionali – e di ben altra pasta – Carcass). E benché John Walker (voce e chitarra), Barry Savage (chitarra), Ian Buchanan (basso) e Carl Stokes (batteria) non siano certo dei mostri in quanto a tecnica, nei brani è rinvenibile uno sforzo di ricerca che rende l'ascolto piacevole e vario per la ricchezza di elementi e scenari contemplati.
Dei dodici brani in scaletta, a predominare sono le tracce dal vigoroso impatto frontale (e ne sono una dimostrazione il portentoso trittico iniziale “Ants (Nemesis Ride)”/“What Do You Think You Are”/Face to Face”, e la terremotante, conclusiva “Save Me from Myself”): azzerate le pulsioni più propriamente death-metal, quel che rimane è un thrash metal che senz'altro conserva le tracce di nomi classici come Slayer e Metallica, ed al contempo non vuole rinunciare ad una immediatezza mutuata direttamente dal retroterra punk/hardcore. Ma la caratteristica fondante di “Black Faith” è che la band si prende la cura di condire riff granitici e fluidi cambi di tempo con soluzioni che via via destano l'attenzione e ci fanno pensare “maddai che non è la solita minestra riscaldata”. Dettagli, o intere porzioni di brano, come l'introduzione apocalittica a base di doppia cassa e accordi dissonanti di “Kill Date”, o la pausa ambientale costituita dall'intermezzo “Temple Song”, o la solenne coda strumentale di “Highest Order”, con tanto di violino. Senza contare l'appagamento che si incontra negli episodi più riflessivi: la doomeggiante (difficile non pensare ai conterranei Cathedral) “Without Cause” (che nel suo ritornello sfodera l'unico momento di autentico growl), o l'orecchiabile title-track, una ballata (persino!) aperta e chiusa da una solare arpeggio di chitarra acustica (chitarra acustica che troviamo nuovamente protagonista in “Sunburnt”, l'altro momento strumentale). In tutto questo trova spazio anche una sgangherata cover dei Deep Purple, tanto per rimarcare l'amore per la decade settantiana: una “Space Truckin'” assai fedele all'originale, ma banalizzata nella sua resa da una esecuzione decisamente scolastica.
Ovvio che oggi tutto questo ci apparirà più che datato (e a dirla tutto nemmeno all'epoca l'ascolto appariva come la cosa più fresca di questo mondo), pertanto “Black Faith” (a scapito della bizzarra copertina, dalla quale ci saremmo aspettati qualcosa di più radicale) va preso per quello che è, ossia un album onesto, scorrevole, con un buon tiro e condito qua e là da qualche guizzo vincente che fa drizzare le orecchie anche all'ascoltatore più disattento: il lodevole tentativo, da parte di una formazione comunque mediocre, di ergere la testa dal marasma di band che ad inizio anni novanta affogavano nel mare placido dell'impersonalità. Se quindi siete degli inguaribili nostalgici e non fate altro che guardare a quanto di buono accadde nell'universo metal e rock in quei tre/quattro anni che vanno dal 1992 al 1995, allora “Black Faith” è l'occasione per rinnovare il guardaroba e riscoprire una chicca che probabilmente vi siete persi.
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