Non ricordo quando ho visto Dead Men Don't Wear Plaid per la prima volta, ma da buona conoscitrice del noir, l'ho trovato subito irresistibile. È un film che arriva da un'altra epoca, una rievocazione nostalgica e affettuosa di un mondo scomparso. Steve Martin, in bianco e nero, con la cravatta di traverso e lo sguardo serio, attraversa una sceneggiatura fatta di ritagli: scene di film noir degli anni '40, personaggi celebri ormai scomparsi, dialoghi collegati con cura a battute nuove. È un collage affettuoso, un omaggio fatto con amore e ironia, come un vecchio album di famiglia in cui si vedono immagini di persone ormai scomparse, acconciate secondo mode sorpassate su cui però non si ironizza, perché sappiamo che erano perfettamente inserite nella loro epoca e che si troverebbero del tutto spaesate al giorno d'oggi.
Il regista Carl Reiner, che nel film recita una parte fondamentale, costruisce un piccolo miracolo: un'opera che funziona sia come parodia sia come dichiarazione d'amore al cinema del passato. Non c'è sarcasmo, non c'è snobismo, c'è solo nostalgia, gioco, rispetto. Ogni scena è un incastro temporale: Steve Martin interpreta Rigby Reardon, un detective solitario che parla con Barbara Stanwyck e che collabora con il suo "assistente" Humphrey Bogart nei panni di Marlowe, senza che nulla stoni davvero.
Il bello del film è che può essere apprezzato anche da chi sa poco o nulla del noir, purché ami il buon cinema. L'ho rivisto circa un mese fa, con due amici inglesi che non conoscono il genere e che l'hanno trovato divertente. Il film è pieno di gag sottili, momenti assurdi, trovate visive deliziose, ma soprattutto ha un'anima gentile. È raro trovare commedie che ti facciano sorridere senza strillare, che siano intelligenti senza essere ciniche.
Tuttavia, per apprezzarlo davvero, bisogna vederlo in lingua originale. Non per fare i puristi, ma perché in un film come questo, le voci sono il film. Le battute dei vecchi noir si intrecciano con i dialoghi nuovi in modo impeccabile, e con il doppiaggio, quel tessuto si lacera. Le voci italiane, tutte corrette e professionali, ma soprattutto contemporanee, non possono restituire le sfumature graffiate di Ava Gardner o la nonchalance snob di Cary Grant. È come cercare di riparare un merletto d’altri tempi con il nastro adesivo. O come ascoltare un disco di Billie Holiday rifatto da una cover band: il brano è lo stesso, ma l’anima svanisce.
Due note tecniche meritano una menzione speciale: la fotografia è di Michael Chapman, storico collaboratore di Scorsese, che qui restituisce con maestria l’atmosfera fumosa del noir. I costumi sono della leggendaria Edith Head, che di abiti per dive se ne intendeva. Questo fu il suo ultimo film, e il suo tocco elegante si vede in ogni dettaglio.
Il film è uscito in Italia on il titolo piuttosto assurdo di "Il Mistero del Cadavere Scomparso", ma si può comprendere la difficoltà di trovare un titolo adatto, dato che una traduzione letterale dell'originale sarebbe stata ancora più goffa. È disponibile in versione originale su Internet Archive.
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