Il secolo breve, lo chiamano, il Novecento, ma non bisogna dimenticare l'ironia da parte di Hobsbawm nel designare quello che probabilmente è il secolo più denso di avvenimenti cruciali per la storia dell'umanità insieme forse al Rinascimento e all'epoca classica. 100 anni ma anche solo i primi 50 potrebbero bastare, e bastano, per infiniti romanzi e film; che poi fa riflettere il fatto che preferiamo tutt'oggi ambientare molte delle nostre storie nel secolo scorso, come se su questi anni non ci fosse già più che molto di cui parlare e narrare. Forse narrare l'oggi rimane troppo difficile per l'autorucolo moderno, proprio dal punto di vista tecnico. Mi appare chiaro che non riesce a gestire l'assenza di assenza causata dalla tecnologia, per fermarmi alla prima cosa che mi viene in mente. Insomma il '900 rimane impresso nel nostro immaginario, soprattutto come fonte dell'odierno – visto che nessuno può obiettare che se siamo comunque distanti distanti dagli anni '70 e '80 (tuttora non riesco a capacitarmi di come faccia la generazione nata tra '50 e '60 a sopportare la politica odierna quando ha avuto quella di una volta da votare. Almeno fate provare anche a noi giovani cosa significa avere una classe dirigente, bestie!), dicevo, se siamo comunque distanti, dico come 20-30enne di oggi, già dalla generazione dei boomer (perdona questa proclività), e se siamo quasi in condizione di incomunicabilità, spesso, con i nostri nonni, a meno che non si parli di calcio o altre banalità, che dire di ciò che proveremmo trovandoci di fronte al proverbiale contadino della profonda parmense di fine '800 comunque recitato e perciò finto gentilmente offertoci da nonno Bertolucci nel suo benemerito Novecento (a proposito, è in buona definizione su Raiplay, senza pubblicità; approfittate di queste vacanze per stravaccarvi e godervi un pomeriggio di felicità)? E che italiano parleremmo con quello vero, di contadino ottocentesco? Già l'atto di comunicare sarebbe un problema.

Tante cose, nel secolo scorso. E moltissime si trovano in questo disco, straordinaria summa di tutto un mondo ormai tramontato da anni – non molti, ma comunque alle soglie di sto porco di un 2020 ormai bell'e tramontato. Carla Bley ancora vive, ma è un contadino ottocentesco che liscia nella penombra del suo appartamento qualche sua vecchia sedia costruita a mano in gioventù, parla un linguaggio doppiamente vecchio e perso. In questo LP tutto richiama un certo immaginario, fin dalla cover, traslucida doratella come il kitsch delle etichette di un qualche amaro nazionale che vuole illudere di non essere roba da bar sport. Uno sforzo congiunto della moglie di Carl Bley insieme ai testi del poeta Heines (da citare anche la produzione di un certo Michael Mantler) che supera magicamente e di gran lunga le capacità di tutti i singoli coinvolti per divenire un luogo d'incontro di tantissime cose che si tirano dietro un'altra quantità di cose.

Innanzitutto ovviamente il Jazz, con la sua intera storia già ingombrante al tempo, dalle origini fino all'epoca delle big band, quando il bianco gli mette giacca e cravatta (prima traccia del disco, che si sarebbe vista un baciotto stampato sulla fronte da parte di Benny Goodman), musica americana e interamente novecentesca essendo oggi confinata nei college, alla metastasi del processo di intellettualizzazione che è cominciato anni e anni fa e pare infine del tutto sterilizzata. Oggi al massimo passa Kamasi. Il Jazz, musica nera qui bianchissima ma in uno stile che comunque neri al tempo frequentavano volentieri mano nella mano con bianchi, matrice che si è prestata solo in quegli anni a progetti massimalisti come questo, un Jazz in mano a una line up chilometrica che cerca di articolare statements e che proprio per questo ha spinto l'audience, disperata, a scappare a gambe levate. Una macchina progettata per altro costretta a un compito ingrato, ma a quest'altezza ancora la mastice tiene e tutto ancora gira e la gente lo vede passare al sole, questo Jazz a scacchi.

C'è la classica, terreno per me minato. C'è eccome, qui si tenta di incorporare tutto il discorso della dodecafonia da Schönberg, Webern, Berg eccetera, un'altra umanità aliena, ancora con una frontiera da esplorare, con scarponi ben legati e stretta in mano una piccozza da arrampicata, sguardo fiero e pentagramma fitto soprattutto di studi e teorie. L'autodistuzione della musica bianca, che ha un che di decadente e autocompiaciuto nelle sue modalità, qui è un necessario ingrediente (necessario diciamo ai fini del mio discorso) per una questione di aura, di estetica, principalmente, e poi di pedigree.

C'è tutta quella sfuggente faccenda del teatro. Palese la presenza dell'opera, prima di tutto, ospitata e presa per mano e guidata in questa ennesima fanfara. E anche qui collegamenti a non finire con la civiltà perduta delle grandi capitali d'inizio secolo, quando il cinema era ancora veramente piccolo ed era squadrato dall'alto al basso. C'è, lo sento, anche Brecht, e quindi un'altra spunta a tutto un certo tipo di letteratura che va indietro indietro fino alle stremate metropoli imperiali che ai vagiti del secolo vomitarono le avanguardie, gli Espressionismi e tutta la loro carica, al tempo, ancora, sociale (quanta acqua è passata sotto i ponti). E con il compare Weill si attinge pure al vero folk bianco, le canzonacce gelide dell'arcigna Mitteleuropa, oltre che al cabaret eccetera.

Non poteva mancare il Rock, ma questo disco esce abbastanza tardi (1971) da incorporarne la forma più evoluta, quindi hard rock di stampo semi progressivo (Businessmen) con i riferimenti al Blues che nemmeno cito, tanto sono ovviamente conseguenti. Meno scontate la presenza della psichedelia, che fa capolino nei pezzi lunghi, la pernacchia alla musica seriale, ignorata, le fascinazioni per il musical, le giocolerie concettuali e tutto l'armamentario hippie che entra nella jam con le sue chitarre elettriche. Non manca persino la musica indiana, i raga, quella fascinazione per l'Oriente che è l'ultima cosa qui incomprensibile prima dell'arrivo degli anni '80, per noi prima casella di partenza dell'oggi, quelli sì comprensibili, anzi terribilmente potabili.

Se il concetto di idea è preso alla lettera, diciamo hegelianamente, come rappresentazione di un concetto, qui sta una possibile idea di Novecento. O se no si possono anche saltare tutte le pippe e far semplicemente partire la prima traccia e osservare un vecchio Humphrey Bogart affannarsi con secchi di stile a sbrogliare i misteri del Grande Sonno, tra belle donne, sigarette, drink di qualità, sopracciglia alzate, sorrisi, chiaroscuri, pistole, e quella notte eterna, misteriosa, la Storia caotica e gordiana del nostro passato, annodata ad un incubo.

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