Ciao ragazzi, prima delle vacanze di Pasqua mi sembrava opportuno allietarvi con l'esame del nostro cinema "minore", forse da me abbandonato, nella sua autentica vocazione, negli ultimi tempi: per cui eccomi qui a parlare, con voi e per voi (come sempre), di "Sposerò Simon LeBon" ('85), del carneade Carlo Cotti.

Si tratta di un film minore interessante sotto vari ed utili profili.

Per prima ci permette di parlare della "febbre Duran Duran", morbo che allo scoccare del millenoventottantaquattro - indifferente ai vaticini di Orwell - prese molti giovincelle, un po' come la "febbre Villeneuve" aveva ammorbato fratelli e fidanzati prima di spegnersi a Zolder nel maggio di due anni prima.

Ora chiudete gli occhi e pensate a tutte le professioniste, intellettuali e dir si voglia che, oggi, partecipano ai meeting di VeDrò e/o difendono imputati eccellenti in odor di mafia, siedono alla plancia di comando di industrie, associazioni di cateogoria, ordini professionali: beh, in gioventù, molto probabilmente, avevano una pettinatura a schiaffo, la frangetta cotonata o il frisè di Clizia e delle amiche protagoniste di codesto film, e smaniavano alla follia per il pop anglosassone di "Simone il bono" ed i suoi amici (io però stimo Warren Cuccurullo), il che la dice lunga su quelli che una delle mie intellettuali di riferimento, Camilla Baresani, chiama "tipi italiani contemporanei" e la loro evoluzione.

In secundis, questo filmetto appare indicativo, sul piano tecnico cinematografico, della simpatica tendenza di sostituire i musicarelli anni '60 e primi '70 con una sorta di genere "instant movie", in cui si rappresenta la follia dei fan per un idolo musicale (ne fecero uno simile su Vasco) nei nuovi contesti socio urbani.

In aderenza all'instant book da cui è tratto il film, opera semibiografica di tal Clizia Gurrado, è interessante vedere le derive della fan-atica media dei Duran nella Milano da bere degli anni '80, leggera e frizzante come gli spritz di certe piazze del nord Italia, da un lato tesa a fuggire dal suo passato e dalle sue vittime degli anni '60- '70 (da piazza Fontana a Sergio Ramelli), da un lato non presaga del collasso politico economico morale dei primi '90 e del successivo quindicennio che ci ha portato al magico esordio del nostro 2008. Insomma, utile il valore storico del film per chi all'epoca era nato o era infante.

In terzo luogo, dietro una regia anonima ed una classica storia adolescenziale non dimentica della lectio data pochi anni addietro da "Il tempo delle mele" ('81) della coppia Marceau-Cosso, è interessante cogliere i volti, appena reduci da acni giovanili, dei protagonisti e comprimari del film, "parenti di" poi destinati ad onorevoli carriere: dal giovine Gianmarco Tognazzi (inconsapevole di futura calvizie), ai vari Federica Izzo (meglio nota come Giuppy e doppiatrice di vaglia) e Luca Lionello (anch'egli attore e doppiatore). Più anonima la carriera della protagonista Barbara Blanc, che, secondo imdb, ha pure recitato in "Don Matteo", anche cui con simbolico trait d'union fra passato e presente del nostro cinema e del nostro Paese.

Ovvio che questo film, scritto e diretto ad uso e consumo del pubblico giovane, all'epoca preso da panozzi e Timberland, sia consumato quasi come un burghi rimastro in freezer per vent'anni, ma ciò non toglie che, quantomeno ai segnalati fini archeologici e sociologici, la sua visione non offra l'occasione per esercitarsi nell'arte del modernariato retrò. E per capire le radici degli attuali, splendidi, quarantenni, o quantomeno di una parte - non secondaria - di loro.

Frattanto, auguri di serena Pasqua a tutti!!

Febbrilmente Vostro

 

Il_Paolo

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