"Borotalco" ('82) è, a mio avviso, il più riuscito dei film di Carlo Verdone: un lavoro in cui il regista romano abbandona i macchiettismi di inizio carriera e, superati da poco i trent'anni, ci restituisce una immagine non scontata dell'Italia dei primi anni '80, e, nel complesso, una ricostruzione realistica dei sentimenti dei giovani di allora e di una certa epoca poi detta, talvolta anche gratuitamente, del "riflusso".

Non so con quanta consapevolezza, poi, il film traccia un quadro non scontato dei rapporti fra realtà e fantasie, descrivendo in maniera lieve, ma riuscita, i sogni tarpati di molta piccola borghesia: mi si passi il paragone letterario, ma in questa storia vedo degli echi quasi salgariani, come meglio spiegherò più sotto.

Facciamo un passo indietro, però, esaminando brevemente la trama del film.

Dopo i grandi riscontri di pubblico dei primi due film ad episodi, ben prodotti da Sergio Leone (il quale, si mormora, diede più di una mano in cabina di regia e montaggio al giovane autore), Verdone volle girare il suo primo film a tema, descrivendo l'amore mancato fra un giovane che, per sopravvivere ed in vista del matrimonio con la figlia di un piccolo commerciante al dettaglio, si finge un uomo di mondo per conquistare una bella venditrice di enciclopedie porta a porta, spacciandosi per tal Manuel Fantoni (in realtà piccolo impostore del sottobosco romano alle prese con qualche guaio giudiziario), affabulandola con avventure mai vissute e vantando buone entrature nel mondo dello spettacolo. Fa seguito il solito scatenarsi di equivoci di ascendenza plautiana, fino alla conclusione, non così pacifica e serena come ogni tanto si legge in rete o in qualche dizionario del cinema.

Sotto il profilo prettamente tecnico, "Borotalco" non eccelle sotto l'aspetto registico, anche se denota, da parte di Verdone, una attenta scelta delle locations ed una descrizione non bozzettistica di Roma, privilegiando uno sguardo disincantato sulle soleggiate periferie della Capitale; ottime invece le interpretazioni, sia dei due protagonisti (Eleonora Giorgi, in particolare, è di gran lunga la miglior attrice brillante degli ultimi trent'anni di cinema italico), che, principalmente, dei caratteristi utilizzati dal regista: alludo al compianto Mario Brega nel ruolo del trucido quasi suocero del protagonista, e ad Angelo Infanti nel ruolo del "grande figlio di puttana" Manuel Fantoni, cazzaro alla Gassmann del Sorpasso, in chiave minore. Da notare una comparsata di Moana Pozzi pre-hard e di Christian de Sica pre cinepanettoni.

Per quanto attiene al significato del film, vorrei spendere, invece, qualche parola in più.

I personaggi di Verdone e della Giorgi vivono, sostanzialmente, due vite parallele: frustrati dal quotidiano, reagiscono con una fuga verso un mondo che non è il loro e non corrisponde a quello reale.

L'uno calandosi nei panni di Manuel Fantoni, vantando l'esotismo del cargo battente bandiera liberiana (simbolo di fuga che davvero riecheggia, in minore, l'India in riva al Po' del suicida Salgari); l'altra sognando un incontro con il suo idolo Lucio Dalla, magari per entrare nel mondo della canzone, un altrove che molti giovani sognavano, e tuttora sognano mutando i propri idoli di turno. Sul finire del film, tutti i sogni crollano, perché cala la maschera di Fantoni, e contemporaneamente scema il mito di Lucio Dalla, svanisce il mito esotico e svanisce anche quello dello spettacolo.

Ciò che resta è un forzoso ritorno alla vita piccolo borghese, al matrimonio non voluto, l'interruzione del rapporto sentimentale desiderato, che, nel finale non accomodante del film, viene a riproporsi nella fugacità del tradimento, nella normalità e, se vogliamo, nella bassezza delle relazioni umane.

Al dunque, nessuno dei personaggi del film ha il coraggio di uscire dal proprio guscio, di avere quel colpo d'ala volto a riabilitare una vita piatta: i sogni muoiono all'alba ed il cargo rimane ancorato al proprio porto, o naviga solo nella fantasia.

Non so a voi, ma a me tutto ciò mette malinconia.

 

"La massa degli uomini soffre una vita di quieta disperazione" (H.D. Thoreau)

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