Non è un caso che la suoneria del cellulare di Marge Simpson, moglie di Homer e mamma di Bart Lisa e Maggie, personaggio immaginario femminile tra i più intriganti, sfaccettati, verosimili, divertenti e istruttivi di sempre (altro che Lucia Mondella o Beatrice, o Penelope…) sia costituita dal super classico “(They Long to Be) Close to You”, capolavoro che parzialmente intitola, ma soprattutto domina dall’alto della sua inarrivabile classe e suggestione quest’album del 1970, secondo di carriera per il duo americano dei fratelli Carpenter.
Curiosamente, a quell’epoca la canzone era vecchia già di sette od otto anni: il suo autore Burt Bacharach l’aveva prima affidata al modesto cantante e attore Richard Chamberlain (il prete biondino e scopacchione di “Uccelli di Rovo”…), poi alla fida fuoriclasse di colore Dionne Warwick, e ancora all’inglese Dusty Springfield ma niente… nessuno se ne era praticamente accorto fino a lì.
Messa infine nelle mani di questi due fratellini (lei ancora ventenne, “batterista che canta” come teneva a definirsi; lui con qualche anno in più e studi approfonditi di pianoforte e armonia alle spalle) la squisita e ricercata progressione di accordi, la geniale melodia che vi si appoggia sopra, persino il zuccheroso testo d’amore trovano sublimazione e fascino.
Si, le liriche sono sentimentali, la musica adulta, adultissima e vagamente manierosa, con quel retrogusto di vecchia America anni cinquanta, quando il jazz e la sua libertà armonica e melodica avevano contaminato, anzi invaso pure la musica leggera, ma negli anni sessanta esistevano pur tuttavia ancora sacche artistiche nelle quali il rock non stava attecchendo... Insomma, ascoltata superficialmente “…Close to You” potrebbe essere liquidata come una canzonetta d’amore made in USA d’altri tempi.
Invece è mirabile, sempre: salvata com’è dall’interpretazione sincera, asciutta e lineare di Karen Carpenter, la quale non introduce ulteriore saccarina cantandola semplice, dritta per dritta, ritmica, senza orpelli e soprattutto infiocchettature gospel e vibrati giganti e glissati infiniti tipici del canto soul e rhytm & blues, spesso così virtuosistico e in definitiva stucchevole. Il suo è un canto “bianco”, di un brano pop jazzato reso colto dalla sapienza compositiva del suo autore bianco, ma reverente alle invenzioni dei neri.
La voce di Karen è poca epperò squisita di timbro; l’ancora scarsa esperienza di canto è perdonata da schiettezza e semplicità che vanno a controbilanciare le forzature d’arrangiamento (farina del sacco del fratello Richard) che avvengono qua e là nella canzone, tipo l’assolo scolastico e senza estro di flicorno mentre che la tonalità esegue un’ortodossa ma “telefonata” salita di mezzo tono, e poi il super coro finale a stirare la canzone di un altro minuto, quando sembrava già bella che finita dopo uno stop.
Niente, è un brano indimenticabile, irrinunciabile, incontestabile: come “Penny Lane”, come “Paint It Black”, come “God Only Knows” o quello che volete voi in merito a quali siano i migliori singoli pop degli anni sessanta.
Il resto dell’album offre una sequela quasi continua e alla lunga stancante di dolci nenie melodiche, quasi tutte ben distanti della magia armonico melodica del surclassante brano guida di cui sopra. Richard Carpenter farcisce il tutto di infinite sovra incisioni vocali di sé e della sorella, si fa sostenere costantemente dalla grande orchestra, compone una buona metà della scaletta per poi affidarsi a Bacharach nuovamente (nell’altra perla del disco, la deliziosa, celeberrima “I’ll Never Fall in Love Again”), ai Beatles (“Help”, in una versione piena e volenterosa, naturalmente non all’altezza dell’animoso e potente capolavoro di Lennon), a Tim Hardin per quella “Reason to Believe” ripresa l’anno dopo anche da Rod Stewart, alla coppia di autori Roger Nichols e Paul Williams che sinceramente passano e vanno con le loro due canzoni come fossero acqua fresca.
Curiosissima comunque la chiusura dell’album, affidata a un brano progressive (!) con tanto di assolo prolungato di flauto traverso e poi di piano elettrico sopra le continue rullate sui tom della “batterista cantante”. Il tutto propriamente intitolato “Another Song” (più che un’altra canzone, direi un altro tipo di canzone…)
Karen Carpenter è morta nel 1983, a trentatré anni. In quel mistero che è sempre la vita e la psiche di ognuno di noi, non sono bastati il successo, la fama, la riconoscenza e l’affetto di tanti ammiratori, la stima il sostegno e magari l’invidia di tanti colleghi e colleghe nel mondo musicale, la professionalità dei medici e degli istituti a cui si era rivolta: se l’è portata via una forma incurabile e devastante di anoressia nervosa.
Una tristezza vederla nelle foto prima da giovane e poi verso gli anni ottanta, progressivamente smagrirsi e incavarsi nel suo sorriso, da innocente e disarmante a via via problematico e malato. Cosa le mancava? Ma perché?... Il fratello invece, strafatto da subito di tutte le droghe di questo mondo, è ancora vivo e vegeto e si gode (immagino) l’agiata vecchiaia: lui ce l’ha fatta.
“(They Long to Be) Close to You” non è solo una canzone: è un mondo, un mondo perduto. La suggestione fine anni sessanta/inizio settanta che crea ad ogni suo ascolto è unica e profonda e inestinguibile, per chi ha gli enzimi (e magari gli anni sul groppone) per coglierla.
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