Questi sei ragazzi del Maine che si fanno chiamare "banco di Cerbero", sono nati nel 1995 come formazione punk e bisogna dire che di strada ne hanno fatto davvero tanta per essere approdati a un disco di questa levatura. Il loro esordio del 1999 "Homb" lasciava percepire un futuro pieno di incognite anche se qualcuno già si era accorto della grande originalità compositiva raggiunta. Chiuso definitivamente nel cassetto il periodo punk questo "Crash My Moon Yacht" ci presenta un gruppo completamente "disintossicato" e pronto a suonare musica di tutt'altra natura. L'incontro con Thomas Kovacevic e Tim Harbeson, provenienti dai Tarpigh, formazione di tutt'altra estrazione musicale, contribuirà non poco a delineare le basi del loro nuovo sound.

Questo nuovo itinerario musicale potrebbe definirsi "music for immaginary soundtracks", una sorta di manifesto di intenti che ha affascinato anche Tom Verlaine e Craig Armstrong: infatti i Cerberus Shoal, con questo lavoro, si confrontano con una simil- colonna sonora per immagini che di fatto non esistono se non nelle profondità oscure della loro mente. Brani prevalentemente acustici, bizzarri nella struttura, assolutamente imprevedibili nell'ossatura, dal respiro magniloquente e vagamente ambient, se l'espressione può aiutare. La produzione, poi, chiude il cerchio: Steve Drown ha fatto un lavoro più che eccelso valorizzando la dimensione acustica e ambientale dei pezzi, dimostrando così di essere uno tra i più illuminati ingegneri del suono in circolazione (non a caso sembra essere già stato contattato dai Radiohead!). Le note sofferte e struggenti della tromba di Tim Harbeson si levano leggere nell'aere a inseguire suoni non comuni o poco sfruttati, generati dal dholak, lo xilophono, il banjo, organi Farfisa e strumenti a canne, sotto tappeti percussivi lievi e particolarmente suadenti.

In generale si percepisce qualcosa di arcano e sacro, uno strano folk decadente e lo-fi, non lontano dai Morphine, i Yo La Tengo e prossimi ai Godspeeed You Black Emperor. I suoni si liberano leggeri passando dal jazz alla musica contemporanea senza curarsi di restare ancorati a classificazioni o steccati di sorta: qui il rumorismo va a braccetto con la cacophonia, la musica sinfonica con il post-rock dando a tutte la stessa dignità in una commistione di generi a dir poco affascinante e personalissima. Un'affermazione di libera anarchia in musica che sembra partorita dopo anni passati a picchiar giù duro "fottutissimo" punk; passaggio probabilmente indispensabile per rinascere dalle ceneri e passare a miglior vita (in senso musicale, si intende!). Disco bellissimo e struggente (purtroppo non facile da reperire).

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