C'è free jazz e FREE JAZZ.

Ovvero: bisogna sapere cosa farne della libertà, sennò diventa solo caos primordiale, privo di senso e di valore artistico. Il free jazz, come nuova forma di espressione, fece le sue prime, timide apparizioni nel '49, con i pezzi “Intuition” e “Digression” del sestetto di Lennie Tristano. La novità: assenza di una base armonica e ritmica fissa. Segue nel '56 “Pithecanthropus Erectus”, dall'omonimo album di Charles Mingus, in cui alcune sezioni hanno sonorità aspre, gridanti e totalmente improvvisate. In quel periodo si fa notare al Five Spot il pianista Cecil Taylor, da molti considerato il vero “padre” del free. La sua musica è violenta, percussiva, atonale, ma di un rigore e una logica ferrei. Emblematico il nome del suo esordio da solista, “Jazz Advance”, sempre del '56. Bisognerà attendere un altro paio d'anni per assistere all'avvento di Ornette Coleman, il nome più conosciuto della “new thing”, e autore di “Something Else!”, dei capolavori “The Shape Of Jazz To Come”, “Change Of The Century”, e “This Is Our Music” (si notino i titoli!), e del Manifesto (non capolavoro) di questa corrente musicale: “Free Jazz”, del '60.

L'identità e l'estetica del movimento sono ormai codificate, e si possono riassumere con due parole: flusso musicale. Nel free jazz tutto è diverso rispetto all'hard bop, tranne gli strumenti impiegati! Non solo manca il giro di accordi, ma mancano quasi sempre dei temi veri e propri su cui improvvisare. Il Beat è sostituito da una pulsazione ritmica quasi costante, le sonorità si fanno stridenti, come aneliti insoddisfatti, grida di protesta. Gli assoli si fanno fin troppo prolissi, strabordanti.

Molto spesso questa musica ha dato frutti di pessimo sapore. L'errore principale di alcuni avanguardisti è stato quello di non capire l'importanza dell'interplay, specialmente in situazioni “estreme” come queste. Se non c'è interplay, la musica improvvisata libera è sterile e piatta.

Charles Gayle (sax tenore), William Parker (contrabbasso) e Rashied Ali (batteria) sono un meraviglioso trio che qui suona FREE JAZZ ad altissimi livelli. E l'interplay in questo disco tocca veramente vette difficili da raggiungere. Musica infuocata, veloce, entusiasmante, varia nei mood come difficilmente il free jazz riesce ad essere. L'album si articola in cinque parti prive di titolo, per una durata di circa 70' di brividi e emozioni, che sembrano durare un attimo. La musica parte a tutta forza, e non si ferma più! Molto spazio è lasciato ad assoli solitari di William Parker, ottimo bassista spesso a fianco del pianista Mattew Shipp, e di Rashied Ali, un nome noto nel mondo del free, nientemeno che il giovane batterista che sostituì Elvin Jones nel gruppo di John Coltrane nel '65. I due se la cavano egregiamente ad assecondare l'impeto del sassofonista, e durante il percorso si ha modo di stupirsi ripetutamente per il magistero tecnico e improvvisativo di questa troika, ed in particolar modo di Gayle, semisconosciuto personaggio che, a causa della sua scelta di “fare free”, se l'è passata malissimo in America, ed è stato a lungo un senzatetto, riuscito a sopravvivere di stenti suonando per strada, racimolando pochi spicci per pagarsi un pasto al giorno. Gayle ha un suono che a tratti ricorda Albert Ayler e saltuariamente anche Archie Shepp (altri due grandi nomi del free), con la sua “umanizzazione” del suono; impressionanti le sue incursioni incendiarie nei registri altissimi dello strumento, e il suo senso della forma in un contesto virtualmente privo di forma. Ma è un altro sassofonista di cui si percepisce l'alone distante: John Coltrane. Diversamente da quanto il nome del disco potrebbe indurre a ritenere, questo non è un tributo a John, né un album di “cover”. Il collegamento è molto più flebile, e si esplica soprattutto in veste “ideale”. Coltrane viene evocato a livello subliminale solo per dirgli grazie, un grazie da parte di chi lo vedeva come un faro da seguire, e che vide la sua conversione alla causa del free jazz (con “Ascension”) come una eloquente e benedicente presa di posizione a favore.

Il fatto che sia stata la minuscola etichetta tedesca FMP (Free Music Production) a concedere l'opportunità di incidere a questi artisti, e non una major americana, è causa del risentito disappunto di tale Joseph Chonto, autore di lunghe e arrabbiate, nonché acutissime note di copertina. Riassumendo la sua visione, si può dire che la musica libera con elevato interplay rappresenti l'equivalente sociale di una vera ed equa democrazia, nella quale ognuno è libero di esprimersi pienamente, ma ASCOLTANDO l'altro e rispettandolo, prendendo spunto dai suoi suggerimenti, e dandogliene di propri.

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