Io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni, senza emozioni; osserva e aspetta l'occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c'è una persona piena di amore e di gentilezza che permette agli altri di penetrare nella cella più sacra del tempio del suo essere, e si fa insultare, e si fida di tutti, firma contratti senza leggerli, e si lascia convincere a lavorare sotto costo o gratis, e quando si accorge di quello che gli hanno fatto, gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso se stesso per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa: e invece si rinchiude in se stesso...”.

 

Leggendo questo estratto preso dall'autobiografia (“Beneath the Underdog”-peggio di un bastardo), si capisce quanto fosse pertinente la definizione che di Mingus diede l'eminente critico Nat Hentoff: quella di “una caldaia di emozioni”. Mingus soffrì sempre un doloroso senso di emarginazione, da “negro giallo”, neanche un nero puro, ma uno “sporco ibrido”, con un po' di sangue pellerossa nelle vene. Neri e indiani d'America riuniti insieme nel suo DNA, praticamente le due culture più brutalizzate dall'uomo bianco americano e “civilizzato”. Polillo lo definì “...un uomo difficile, imprevedibile...disadattato ai limiti della psicosi...vittimista ed esibizionista, onesto come pochi, ingenuo...brutalmente sincero, patologicamente incapace di controllarsi, spesso ingiusto e ingrato.”. Bob Thiele, suo produttore dei dischi Impulse, rincarò la dose, parlando di lui come “un moderno Dottor Jeckyll-Mister Hyde”.

Charles Mingus è stato, dopo Duke Ellington e Thelonious Monk, il più grande compositore che il jazz abbia espresso. E ne è stato anche il più grande contrabbassista.

Unitamente alla sua tecnica impressionante, costruita con fanatica dedizione, e con una punta di esibizionismo, Charlie possedeva un'innata predisposizione melodica, e un istinto improvvisativo in linea con la sua personalità impulsiva e schizofrenica. Le composizioni di Mingus sono state il ponte di collegamento ideale tra le due grandi rivoluzioni nel jazz del dopoguerra: il bebop dei '40 e il free jazz dei '60, affinando il primo linguaggio e precorrendo il secondo. Ma la sua musica non è mai stata lo specchio di una corrente ben precisa, al contrario, Mingus fa storia a se.

In lui improvvisazione e scrittura sono talmente correlate da non essere più scindibili. Mingus evitava l'uso intensivo del pentagramma, usava invece sedersi al piano e illustrare i brani ai propri musicisti, concentrandosi nei punti chiave della composizione e spiegandone le dinamiche, o meglio, il feeling, cosa che un pentagramma non avrebbe mai potuto fare al suo posto. Come per la Commedia dell'Arte, ai solisti veniva lasciata la più completa libertà improvvisativa, nel rispetto però del canovaccio stabilito in precedenza. Il metodo compositivo di Mingus è in un certo senso complementare a quello di Duke Ellington, una delle figure da lui più amate e rispettate, che aveva in ciò il suo fondamento principale: comporre il pezzo pensando al feeling DEL solista (fare un pezzo “su misura” per Johnny Hodges ad esempio). Al contrario Mingus decideva prima il feeling che voleva ottenere nel pezzo, e poi lo spiegava ai musicisti, i quali almeno in parte venivano scelti in virtù della loro adattabilità.

Nel '57, un anno dopo l'uscita di “Pithecanthropus Erectus”, il suo primo capolavoro, Mingus diede alla luce un altra pietra miliare, “The Clown”.

La prima traccia, “Haitian Fight Song”, è uno dei capolavori di tutto il jazz. La musica comincia con un breve preludio di contrabbasso, che presto si lancia in riff ritmico travolgente, cui segue la progressiva aggiunta degli altri strumenti in un crescendo di suoni e di dinamiche leggendario. Quasi si stenta a credere si tratti solo di un quintetto, dato l'impatto sonoro raggiunto. Gli assoli del trombonista Jimmy Knepper, del pianista Wade Legge e del sax contralto Shafi Hadi sono assolutamente aderenti allo spirito di guerriero incarognito di questo pezzo di “protesta”, e il fedelissimo drummer Dannie Richmond sottolinea l'incedere del flusso musicale con maestria. Parte l'assolo di Mingus, uno dei più godibili, articolati e strutturati assoli di basso documentati su disco. Il mondo di suoni che riesce a cavare dallo strumento, la logica dietro la scelta di ogni nota, e soprattutto la sua risoluzione nel suonarle sono esemplari. Commenta lo stesso Mingus: “...potrebbe anche intitolarsi Afro-American Fight Song...L'assolo che io prendo in questo pezzo è pieno di concentrazione. Non posso suonarlo nel modo giusto se non penso al pregiudizio, all'odio, alla persecuzione, e a quanto tutto ciò sia ingiusto.”. Si chiude dopo 12' un grande capolavoro.

Il secondo brano, “Blue Cee”, è un blues raffinato con richiami gospel che, pur non raggiungendo la genialità del brano d'apertura, contiene comunque un bellissimo assolo di Mingus. Il terzo pezzo, “Reicarnation Of A Lovebird”, è un abbraccio a Charlie Parker, composto da un Mingus in lacrime. Un pezzo struggente, che rappresenta le sensazioni di Mingus nei confronti dell'amico scomparso. Una delle linee melodiche più belle e più ambigue mai sentite, dal sapore indefinibile e contraddittorio. Assoli magnifici di tutti i musicisti. Capolavoro.

 

Chiude l'album “The Clown”, lunga narrazione sperimentale improvvisata con commento musicale, interpretata da Jean Sheperd, che tratta dei travagliati meccanismi psicologici di un clown, appunto. A mio avviso il punto debole del disco, non all'altezza del livello medio elevatissimo degli altri brani.

Ciò nonostante, sarebbe ingiusto punire questo album fondamentale con una votazione inferiore a 5.

COMPRATELO.

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