Una bellezza americana struggente, drammatica e coinvolgente. È l'unico pensiero che venga in mente ascoltando sino in fondo questo grosso lavoro di Charlie. Un Haden profondamente americano; orgoglioso ed intelligentemente generoso come solo un americano vero. Da non confondere coi falsi e pericolosissimi modelli da esportazione.

'Gli americani sono dei bambinoni pericolosi' sosteneva Hemingway. È forse vero. Comunque qui siamo in presenza di uno dei più  fulgidi rappresentanti della parte migliore del paese, punta di diamante del jazz mondiale e volto onesto, pulito, assolutamente presentabile e degno di massimi considerazione e rispetto. Lasciando da parte per un momento qualsiasi riferimento politico contingente o passato, l'introduzione virata d' impegno alla recensione è comunque necessaria in quanto questo lavoro rappresenta il logico seguito di "The art of the song" (album del 99 con Shirley Horn e Bill Henderson) e il naturale anello di congiunzione con il resto della varia produzione, sia del Quartet West che degli esempi di impegno intellettuale civile più  dichiarato ('Liberation Music Orchestra', 'Not in our name'). 

In questo album troviamo l'impegno di calibri quali Michael Brecker, Brad Mehldau e Brian Blade che assieme al leader lavorano, magnificamente accompagnati da uno sfondo d'archi che risulta essere arrangiato perfettamente, ad incastro magico con le sonorità mature e rilassate dei brani.
L'arrangiamento dei pezzi vede diversi soggetti all'opera; spicca il lavoro di Alan Broadbent, membro del Quartet West. L' incarico è invece coperto (sempre splendidamente) per altri brani da Vince Mendoza, Jerry Lubbock (vecchi animali da studio) e Charlie Haden stesso per i brani in quartetto senza archi. La cover e le foto del lavoro dovrebbero essere di Claude Emile Furones che 'realizza foto che sembrano quadri'. Diciamo 'dovrebbero' perché l'artista viene ringraziato nelle note, ma il cover design è dello studio CB Graphics di Parigi. È importante citare, di un disco così bello, anche i riferimenti a contorno che ti danno l'impressione esatta della cura e dell'amore profuso nella realizzazione del prodotto artistico contenuto in esso. Dopotutto per acquistare un CD si spendono bei soldi ed è giusto avere in cambio qualcosa che non sia solo un pezzetto di fredda plastica con due note di copertina vergate in fretta.

Charlie dimostra, come sempre d'altronde, anche in questo il massimo rispetto per chi lo ascolti. Come solo un grande artista e protagonista del nostro tempo. Ancora: sull'ultima del libretto vengono riportate due poesie che ti aprono i ventricoli del cuore e da lì fan partire un ponte di gratitudine e fratellanza verso l'altra sponda dell'oceano. Vanno assolutamente riportati un paio di estratti:

'Dobbiamo fermarci. Semplicemente fermarci. Fermarci per un momento prima che chiunque dica o faccia qualsiasi cosa che possa ferire chiunque…  essere per un momento gentili, innocenti e fiduciosi, come bambini o agnelli… e adesso preghiamo, in maniera differente ma assieme,  prima che non ci sia più Terra,  più vita, più nessuna possibilità per la pace'

(da 'For our world', Mattie Stepanek). 

I brani: 

1)  'American Dream'  è un pezzo di Charlie che introduce il tema con un assolo di basso sopra un tappeto di archi che sembra uscire da una nuvola magica. Il piano subentra a raccogliere il testimone e Brad Mehladu nel disco interpreta il suo ruolo con il massimo rispetto, come peraltro Brian Blade, che normalmente è un ciclone torrenziale ma in questa opera pennella leggero con spazzole e gusto totale, al pieno servizio del prodotto, senza ego. Il piano prosegue su un pedale di basso. Per un pezzo che funge da delicatissima intro al disco.

2) 'Travels' dell'amico e conterraneo Pat Metheny viene reso in maniera magistrale ed al quartetto si affiancano sfumature impercettibili di synth curati da Judd Miller. Fa il suo ingresso maestoso e trionfale ma discreto al tempo stesso Michael Brecker, in una performance globale del disco che ricorda per lui molto da vicino il ruolo nel suo quindectet in  'Wide Angles'; con la differenza che qui egli è libero dal dover dimostrare alcunché o dalle responsabilità di un leader di progetto; quindi dialoga magnificamente con Brad e gli altri, con questi tappeti larghi di musica stupenda sotto.

3) 'No lonely night', di Keith Jarrett prosegue e delizia le tue orecchie martoriate dalle quotidiane balle galattiche che ti tocca sopportare. Per uno spicchio di giornata il jazz e l'arte sua pura ti elevano. Domani parleremo di mutuo, quotidiane fatiche etc. Per questa sera Charlie parla alla tua anima e Michael infila scale dietro scale con cifra oramai inconfondibile, con un Mehldau di una sobria maturità impressionante, calato nel ruolo di un Monty Alexander in gran spolvero. E non vuol essere denigratorio, anzi!

4)  'It might be you', di Marilyn Bergman e Dave Grusin resta sullo standard d'eccellenza detto poc'anzi, con un Michael Brecker che viene usato come voce solista di un progetto musicale corale, quasi da Carnegie Hall o simili. Nessun colpo di batteria avvertibile o piano in evidenza. Duetto tra archi e sax di mozartiana bellezza.

5) 'Prism' ancora di Jarrett ci dispiega uno sviluppo tematico senza archi, nella miglior tradizione modern mainstream contemporanea. Le differenze col Quartet West sono avvertibili nelle impronte personalissime dei tra musicisti accompagnatori Mehldau/Blade/Brecker che, come direbbe Catalano, non sono Broadbent/Watts/Marable  e caratterizzano in maniera fortissima ciascuno per la propria parte. Quartet East. Molto Mehldau a briglia sciolta. Eccezionale.

6) 'America the beautiful' (traditional) di nuovo rappresenta, dopo il primo brano,  un artista giustamente orgoglioso delle proprie radici. Che suona libero il suo tema con il contrabbasso in evidenza sul tappeto d'archi, prima di ceder il passo allo sviluppo del resto della band. Delicato come una giovane pattinatrice di trentacinque chili su un lago ghiacciato in una giornata invernale assolata. Mehladu centellina le note e Charlie riafferma nel solo centrale il suo ruolo di contrabbassista di peso enorme (ben maggiore di quello della pattinatrice!!!). Cambio di tonalità e sobria take del sax. Chi è stato in Usa ed ha colto l'ingenuità profonda ed il bisogno di sicurezza, di un modello di riferimento ed in sostanza di un abbraccio per l'americano medio apprezzerà appieno.

7) 'Nightfall' è un vecchio standard di Charlie ripreso per l'occasione. Risorge a vita nuova e splende di luce propria col 'Quartet East treatment'.

8) 'Ron's place' è di Brad Mehldau ed anche questo brano in ¾ viene interpretato sullo stesso standard qualitativo del precedente, con interpretazione più 'puntata' ma logicamente sviluppata.

9) 'Bittersweet' è di Don Sebesky, grosso arrangiatore Usa.  Sviluppo lento ed inesorabile, con intro di archi e sax che cedono il passo ad un Mehldau sorprendente per gusto, calibratura e scelta delle note sciorinate.

10) 'Young and foolish' è uno standard di Horwitt/Hague il cui tema viene sviluppato all'inizio dal basso per poi proseguire placido come il proverbiale Don. 

11) 'Bird food'  di Ornette Coleman  porta una ventata di veloce bebop in un disco di classe, quale sbilenca ciliegina sulla torta. Non te lo aspettavi, ma sta qui e spiazza completamente le aspettative. Vira sul quasi free e non si capisce francamente cosa c'entri col resto; ma evidentemente Charlie aveva bisogno di mettercelo per testimoniare il suo affetto verso Ornette. E magari per ricordarci che in una serie di American Dreams c'è necessariamente anche la parte più spigolosa 

12) 'Sotto voce' è di Vince Mendoza. Un Evi 'flauto di Pan' introduce un pezzo bellissimo, affresco di accordi aggraziati guidati dal sax di un Michael Brecker in stato di elegia. Brad aggiunge le sue riflessioni magiche.

13) 'Love like ours' ancora di Bergman/Grusin  chiude un disco magistrale nella maniera crepuscolare più giusta, lasciandoti in bocca un senso di appagamento e al tempo stesso voglia di tornare ad ascoltare il disco. Non subito. Va digerito e fatto sedimentare nell'anima poco a poco.

Difficilmente si ascoltano in giro opere del genere. Il grado di maturità raggiunto da Charlie Haden nel capire quali brani inserire in scaletta, che tipo di arrangiamenti scegliere ed il suo naso nello scegliere i musicisti giusti  testimoniano ancora un volta che il jazz è ben lungi dal poter essere dichiarato in stato di salute precario. 
Ancora Mattie Stepanek: 

'Quando gli alberi cantano, non è veramente importante che tu conosca o no la canzone,  o se tu sappia le parole, o addirittura se tu conosca l'armonia. Quel che conta è che gli alberi cantino'.
Un sogno di disco: un vero 'American dream'.

 

 

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