Uh-oh! Ci fanno notare che questa recensione compare anche (tutta o in parte) su kalporz.com

Non c'è nulla di progressive a proposi di "In Color", il secondo album dei Cheap Trick. Ma anche parlare di Power pop è piuttosto rischioso; i Chap Trick sono sempre stati una band detestata/venerata, cosa che il look quasi pacchiano da parvenu arricchiti e il titolo completo del disco "In color and in black and white", non faceva che accentuare.

Ben Carlos, il batterista, sembra essere nato dall'incrocio di un bancario e di un nightporter di Sydney, Rick Nielsen, chitarra e leader, un autentico fan di baseball con occhi da pesce lesso, Robin Zander, chitarra e voce, e Tom Petersson, basso, sono imprescindibili prototipi del rocker '70, molto aitanti e tendenti al super macho. Ma se da questo punto il gruppo si distingue in maniera vistosa, sul piano musicale i Cheap Trick sono, tanto anomali quanto devoti, fans dei Beatles. Ma non nel senso dei Raspberries o di Elton John oppure dei Bay City Rollers. Ciò che sorprende è che questi quattro nipoti dello zio Sam, ritenessero che il repertorio più importante dei Fab Four fossero i pezzi hard rock della loro ultima produzione, nella fattispecie "Back In The USSR", "Helter Skelter", "Yer Blues", "I Want You" e "Come Together".

Usando una frase che potrebbe sconvolgere qualcuno: "In Color" suona come se il Divino Duo si fosse innamorato di chitarre aggressive e atmosfere glam. Se Lennon e McCartney fossero sopravvissuti fino al '77, perché non abbandonarsi a questa possibilità, date le intenzioni molto rocchettare dell'ultimo John? Abbandonando queste utopie temporali (tutti sono liberi di riflettervi, dato che i Beatles si sono dimostrati capaci di praticare una vasta gamma di generi musicali), i dieci pezzi che animano l'album sono sensazioni palpabili di un successo irresistibile e di un'evoluzione sonora davvero notevole, ma bisogna premettere che nell'analisi, tutti i punti cardinali e di riferimento, usati in questo campo, sono inutilizzabili. "Hello There" richiama a sé le antiche vestigia del rock sporco di "Birthday"; "Big Eyes" si apre con un esplicito riferimento a quel labirinto sonoro sconnesso, unito solo dai versi minimalisti di Lennon, che è "I Want You". "Oh Caroline" ha il medesimo effetto tenuemente incantato del miglior rock di Abbey Road. Nielsen e Zander pagano un grande debito sia a George che a John, uno per la grande inventiva nel far cinguettare le corde e l'altro per le indubbie dotti vocali, ma i Trick non sono meramente derivativi, come poteva essere per i Boston, perché costituiscono ben più della somma delle note che manipolavano, soprattutto se lo facevano con grande perizia.

Una lista degli ascendenti sul gruppo sorprende per ciò che include ma anche per ciò che esclude: ovviamente, gli Yardbirds e gli Who occupano un posto importante, ma è anche totalmente assente ogni riflesso dei Cream e della Jimi Hendrix Experience. Ma queste omissioni concernano un disegno più vasto: Nielsen scrive le sue canzoni con molta attenzione e le coriacee armonie di Zander sono usate strumetalmente, piuttosto che verbalmente. Qualcosa di simile si potrebbe dire per gli Steely Dan, ma i Cheap Trick hanno il vantaggio aggiunto dell'accessibilità. Quello che bisogna dire è che i Cheap Trick avevano così già vinto la battaglia contro la convenzione che il punk rock stava per ingaggiare, corroborata da una caratteristica mai troppo cinica: il senso dell'umorismo. Dunque un album che si presenta come un banchetto molto sostanzioso, la cui esistenza è sempre stata molto ignorata.

Se per caso Robinson Crusoe vi dovesse chiedere di andare a passare con lui qualche tempo sull'isola deserta, mettete subito i valigia questo disco, che ha un sapore enciclopedico ma mai borioso, con quel retrogusto di puro piacere che mai sconfina nella stupidità o nell'esibizionismo.

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