Il trentesimo album dei Chicago uscì nel 2006 senza il minimo clamore dalle nostre parti, da sempre refrattarie a quel loro pop rock mainstream americanissimo, adulto e stantio. Il riscontro in madrepatria, dove vengono considerati vera e propria istituzione (più di sessanta milioni di dischi smerciati dal 1969 ad oggi solo in USA) non fu a sua volta niente di speciale… evidentemente al di là dall’Atlantico sono oramai assuefatti a non aspettarsi niente di nuovo e importante da un gruppo anziano e appagato come loro.

Ascoltare e possedere dischi recenti dei Chicago può ancora costituire un buon esercizio musicale però… L’accorgimento è di non aspettarsi ispirazione ed interesse costanti e quindi di discriminare nettamente fra i vari brani proposti, gettando innanzitutto a mare senza troppi problemi la generosa e stucchevole dose di ballate saccarinose e vacue, più o meno tutte eguali, che partono sempre con il plin plin del pianoforte ad introdurre la vocetta vuotamente mielosa dell’altrimenti bravissimo bassista Jason Scheff. Sviluppano perciò il loro solito testo edulcorato e per quanto possano gonfiarsi di cori, pieni orchestrali, trombonate qua e là, non approdano a nulla di buono irradiando un afrore da Festival di Sanremo versione USA.

Rimossa quindi la cospicua zavorra, resta sempre nella rete qualche bel pesciolino: gli otto Chicago e i musicisti collaboratori di cui essi, per niente gelosi dei propri ruoli artistici, si circondano, sono tutti musicisti di serie A i quali, quando la smettono di fare i ruffiani e gli "adult oriented” tout court e si lasciano andare al piacere di suonare per se stessi e non per la casa discografica, tirano fuori ancora pregevoli cose.

In ordine di personale gradimento cito innanzitutto “Already Gone”, sette o quasi minuti pirotecnici che partono col cantato marpione da scafato crooner dell’organista Bill Champlin e si imbevono poi dei puntuali, esplosivi cori nonché del lavoro d’alta scuola dei tre fiatisti. Quando sembra che il brano abbia concluso il suo percorso con la scolastica ripetizione ad libitum del ritornello, si innesta invece un'egregia coda strumentale coi fiati che viaggiano in unisono in stile big band, deliziosi sopra un’elegante ed agile ritmica.

In “90 Degrees and Freezing” l’inconfondibile, fangosa voce del pianista Robert Lamm e l’eccellente riff disegnato alternativamente dal suo strumento e dalle chitarre già predispongono alla sacrosanta ammirazione, poi ci si mette pure la porzione centrale strumentale, con una scala ascendente jazz sulla quale svisano i fiati e poi la chitarra dell’ospite Dan Huff (un musicista magnifico, lo si può ammirare compiutamente col suo gruppo AOR Giant dei quali è anche il cantante). Come da tipico schema usato dai Chicago, nel ritornello le incombenze vocali passano al bassista Scheff il quale dimostra tutta l’esplosività, estensione e spinta della sua voce, veramente sprecata e buttata via in tutti quei passaggi melensi che si concede in ogni disco.

Better” è uno shuffle funky rock messo quasi alla fine che profuma un poco di Steely Dan, colla sezione fiati a staccare brillantemente ad ogni passaggio e il sapientissimo incastro degli strumenti ritmici, trasudante classe e raffinatezza ad ogni battuta.

Ultima segnalazione per il brano d’apertura “Feel”, una cosa molto alla Toto, curiosamente riproposta anche in chiusura con opzione di fiati in aggiunta: si apre con una concessione “moderna” all’hip-hop, ossia il classico loop ritmico infagottato e ottuso, che per fortuna lascia ben presto il campo all’esplosione degli strumenti veri e delle splendide, tonanti voci dei tre grandi cantanti che questa formazione annovera.

Tutto il resto del disco viaggia tra il trascurabile e l’irritante… è il tipico album da gustare col telecomando in mano, dito sul tasto di progressione traccia.

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