Cos’è, poi, la canzone politica? Una dichiarazione d’amore all’Ideale, una denuncia a sfondo sociale e/o razziale, un semplice coacervo d’insulti e contumelie all’avversario? Un caro amico, più di trent’anni fa, mi diceva che per lui “Come è profondo il mare” è una canzone politica nel senso più proprio del termine, molto più di “The times they are a-changing” o di “Giai Phong”… Nel brano di Dalla si faceva politica parlando d’altro. Magari estremizzava. Magari.

La canzone politica, diciamo così, “di sinistra”, che da noi conobbe fausti ed auge tra la metà degli anni sessanta e la fine dei settanta, non s’è mai fatta scrupolo d’indicare precisamente avversari e, conseguentemente, di predicare una società “migliore”, scevra da impeti nazionalisti, protesa verso un qualche internazionalismo, certa d’una vittoria proletaria finale per la quale mai si è data pena d’indicare una via, un mezzo, sempre e soltanto il fine, mai il mezzo. Concetti che mi sento di sottoscrivere ma non più di cantare, anche se l’ho fatto, davvero, l’ho fatto. E sono stato contento quando si è cominciato a fare canzone politica usando nuovi linguaggi musicali, il barbuto sofferente con chitarra acustica aveva fatto il suo tempo. Qualcuno anche I suoi soldi.

La canzone politica “di destra”, dal canto suo, non si è mai molto discostata dallla sua origine di slogan repubblichino, si è limitata a celebrare I suoi martiri di parte ed a giurare vendetta, a braccio alzato, alla scalcinata democrazia che ci ostiniamo a vivere.

All’estero, tralasciando la canzone di protesta e di denuncia di popoli oppressi, divisi, schiacciati dai colonialisti di turno, brilla di luce propria la canzone politica americana, nel senso degli USA, in cui le dichiarazioni programmatiche sfumavano quasi sempre in una prosa tesa a interpretare la realtà in maniera diretta e provocare empatia nell’ascoltatore, ancorché poco interessato. E poi c’erano le implicazioni socio-razziali e gli intrecci, musicalmente intesi, col blues, col country e via cantando…

In Sudamerica di esperienza di persecuzioni politiche ne hanno fatta tanta, abbondante e lì il sottofondo musicale alla canzone politica si è appoggiato su basi andine e melodie autoctone anzichenò.

In Brasile, poi, venne “Calice”, canzone politica, eccomenò, nel senso più nobile e antico della parola. E parlò politico senza urlare, senza clamore, vestendo le parole di significati che solo coloro che assistono ai misfatti governativi capiscono, anche se sembra si parli d’altro. Bisogna far così, mimetizzare e mimetizzarsi, per assicurarsi diritto di replica, raramente lì la canzone politica arriva allo sberleffo, sofferenza e serietà sono la cifra stilistica su cui si basa.

Tra I tardi ‘60 e la metà dei ‘70 il governo militare brasileiro, che non si era distinto per efferatezze come quello cileno o l’argentino, ma che, insomma, le sue porcate da governo golpista le aveva bell’e fatte, aveva adottato degli slogan che recitavano più o meno: “Brasile: se non ti piace, lascialo” (di queste belle scritte ne si adornavano soprattutto le città perché era lì che si rintanavano le schiere di artisti, letterati, poeti, pittori e compagnia bella che dall’operato di tale governo dissentivano ed anche abbastanza apertamente, in provincia si controllava tutto meglio). Ora, la sfacciataggine di Pinochet che gli intellettuali non li distingueva dai sindacalisti e dai “rossi” in genere e li gettava dall’elicottero direttamente nell’oceano I generali brasiliani non ce l’avevano. Come eliminare fisicamente decine di personaggi noti in tutto il mondo, che facevano poesia e musica che tutti conoscevano, da Roma a New York, da Nairobi a Tokio?

Quindi via, firmate una dichiarazione e toglietevi dalle palle prima di subito. Questa la sorte che seguirono personcine del calibro di Caetano Veloso, Gilberto Gil, Chico Buarque de Hollanda, Vinicius de Moraes (che pure il suo Paese l’aveva servito per anni come diplomatico), Maria Bethania, Edù Lobo e molti altri, qualcuno, magari dopo essersi sciroppato mesi di prigione, di quella prigione….

Francisco, detto “Chico”, stava particolarmente inviso alle autorità, per esibire un elegante eufemismo. Notissimo ed apprezzato ovunque, esecutore garbato, quasi sottovoce, delle sue composizioni conosciute nel globo terracqueo, sfruttava questa sua notorietà anche all’estero come uno scudo dietro cui si riparava dopo aver espresso la sua indignazione, il suo parere contrario, cantando le sue idee parafrasandole con parole che parevano sempre riferirsi ad altro, a concetti diversi, ad altre realtà. Di questa tecnica, Cálice è il prototipo tipico. Parli di una cosa ed è facile capire che che ti riferisci ad un’altra, e devi comunque fare attenzione, in Brasile quasi non si parla di desaparecidos ma anche qui ce ne sono stati, specie tra I quadri sindacali e dei partiti di sinistra, ma comunque è sempre possibile un incidente, un incendio in casa….

Dopo esser stato arrestato nel 1968, dopo aver soggiornato da esule in Italia ed in Francia Chico ebbe modo di ritornare in Brasile dove fu particolarmente abile ad aggirare la censura, firmando canzoni con lo pseudonimo di Julinho de Adelaide ed addirittura girando con due carte di identità di cui una intestata con quest’ultimo, fittizio, nome.

L’Ufficio Censura temeva ogni sua canzone, anche se palesemente d’amore, passava I suoi testi al setaccio, dopo che in “Apesar de Vocé” era uscita, nel 1970, dichiarava a mezza voce: “Oggi comandi tu, la tua parola è un ordine, non c'è discussione, la mia gente, oggi, parla con gli occhi bassi, vedi, tu che hai inventato questo stato e tutto questo buio, tu che hai inventato il peccato hai scordato di inventare il perdono. Malgrado te, domani sarà un altro giorno ...” Sotto le spoglie d’un amore frustrato per una donna spietata c’è una canzone politica coi controfiocchi. E girava in centinaia di migliaia di copie.

Poi venne, siamo nel 1973, un concerto organizzato a Sao Paulo, pieno di stars della bossanova e della seconda ondata di quel genere, organizzato proprio in aperta sfida alle scelte del regime nel campo della censura… Alla bossa è seguito il tropicalismo, l’ha ibridata col beat e col rock, altri significati hanno caricato una musica nata prima come blues del Brasile e poi universalmente digerita come musica da ballo, sensuale e un po’ triste, spesso come musica da ascensore nei grattacieli. “Phono ‘73” è il nome dell’evento e fa leva sulla notorietà dei nomi degli artisti convenuti, sono quelli di cui sopra, più Elis Regina, Jorge Ben, Ivan Lins e molti altri, la crema della nuova ondata della nova cançao brasileira.

Gilberto Gil e Chico Buarque hanno composto un brano, “Cálice”, molti già la canticchiano, la censura governativa ne è al corrente, come sa già che I due la canteranno. Nell’originale ne cantano una strofa ciascuno, qui decidono che Gil canterà la strofa e Chico, in maniera pedante e monotona, ripeterà la parola “Cálice” sfruttandone la perfetta assonanza con l’esclamazione “Cale-se” (“Taci!”), a voler sottolineare che le atrocità che commette un regime autoritario sono tali non solo quando colpiscono I dissidenti nel fisico, con la prigione e la tortura, ma anche e soprattutto quando interferiscono nell’intimo delle coscienze e dei comportamenti della gente comune, abituandola alle malefatte d’ogni giorno della classe dirigente.

E allora Chico esclama “Taci!” ad ogni inizio di strofa mentre Gil scandisce: “Padre, allontana da me questo calice di vino rosso di sangue, come bere questa bevanda amara, ingoiare il dolore e la pena? Tanta menzogna, tanta forza bruta...”

Il pubblico capisce, applaude, ascolta avido le parole e fischia di riprovazione quando sente l’intimazione a tacere, sa bene cosa intendono I due amici sul palco...

La polizia politica conosce già il testo della canzone e a nessuno sfugge che di nuovo Chico parla di una cosa e ne intende un’altra, che è il suo modo di passare tra le maglie della censura. Cita il Vangelo, nel testo, la notte di Gesù nel Getsemani, e rimanda dritto al lavaggio delle coscienze che ogni dittatura esercita sui cittadini, di cui non si limita a reprimere le idee e le voci “contro” ma si spinge a lavare le mani degli ignavi lasciando loro pensare che tanto questa è la realtà e nulla può opporvisi….

Due poliziotti in borghese spodestano I tecnici audio dal mixer e scollegano il microfono di Chico. La gente lo vede cantare e non sente le parole, capisce subito e fischia sonoramente, e fischia di solidarietà con lui… Gli sbirri ridono, pensano che il pubblico fischi contro Chico che apre la bocca e loro non possono sentire e mostrano dal mixer il cavo staccato a Chico e lui continua, scuote la testa, Gil va avanti e le dice tutte, le parole che tutti aspettavano: “È troppo grassa e non cammina più la scrofa, è troppo usato e non taglia più il coltello, com'è difficile, padre, aprire la porta, questa parola prigioniera in gola ...”

Ora la gente piangeva di rabbia, tutti ora capivano che non solo si poteva censurare una canzone, una pièce teatrale, un film, ma si arrivava anche a staccare il microfono di chi cantava il dissenso, di chi denunciava senza violenza. Qualunque cosa ti potessi aspettare da quello stato, comunque conteneva violenza, e non solo la violenza che c’è nello staccare un microfono mentre uno canta di cose invise al regime, ma la violenza che si fa a chi lo ascolta e non lo sente più. Non di sola violenza fisica vive una dittatura.

Molti presenti dichiararono, anni dopo, che uscirono dal concerto con un nodo in gola, per strada, tutti I giorni, vedevano l’arroganza del regime e quella sera avevano assistito anche allo sberleffo del regime. “Comunisti del cazzo, avete avuto la musica, volevate anche le parole?”, sussurravano I poliziotti ai ragazzi che sfollavano e che commentavano ad alta voce.

Che dite, questa è canzone politica?

P.S: Gli intenditori apprezzeranno molto la versione di “Cálice” che nel 1978 cantò Maria Bethânia, sorella di Caetano Veloso, con la sua voce carica di fuoco e vento, guarda un po’.

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