"Mia Sorella è una foca monaca" è ormai un mezzo caso letterario, pubblicato da Fazi (neanche male come editore), è uscito nei primi mesi dell'anno.
Si tratta di una mezza risma di fogli stampati e rilegati che altri definisce "libro", ma che sarebbe più appropriato definire "componimento", termine neutro ed utilizzabile sia per un capolavoro che per un temino scolastico.

Christian Frascella  vive a Torino (e fino a qui tutto bene, come in quella famosa barzelletta del suicida dal trentesimo piano).
Ha più o meno trentacinque anni, ovvero quell'età che in questo sventurato paese permette ai suoi interlocutori di chiamarlo "giovane", senza che il "giovane" in questione risponda con uno spontaneo e sacrosanto pugno sul naso. 
Ha fatto lavori di merda come tutti gli altri, ma ne parla troppo, si vede che poi tanto male non stava (e cosa ci sia poi da esibire, non si capisce).
Ha una bassa scolarità, ma non si è nemmeno reso conto che questa avrebbe potuto essere un'arma impropria verso la comunità di narratori e intellettuali (si, vabbè) ai quali ormai appartiene.
Ha scritto un'opera la cui straordinaria novità consiste nel descrivere le gesta di un adolescente sfigato (notoriamente sono rarissimi), nella Torino del 1989 (notoriamente considerato come un novello rinascimento), il quale vive in una famiglia sfasciata, genitori separati, sorella scema ecc (notoriamente una situazione fertile e tuttora inesplorata).

Quanto al libro, reputo inutile descrivere la noia di situazioni stereotipate che possono intrigare solo le segretariette secche-secche ed asessuate di cui è ed era popolata anche Torino nel 1989. Mi sembra  improduttivo sottolineare la tenerezza di plastica che il sedicenne sfigato dovrebbe suscitare attraverso le sue grigie vicissitudini.
E giudico banale calcare la mano sulla presenza non esplicita ma ingombrante dell'autore, che si sostanzia con un innaturale e vagamente retrivo disincanto che non può essere del protagonista.
Sorvolo, infine, sulle assurdità logiche di cui è infarcita questa carta (Un coatto minorenne che sbava per il film "Casablanca" e conosce Renzo De Felice, ma praticamente ignora dov'è Berlino, l'avete mai visto?  - ma l'elenco potrebbe essere lungo)

Autorevoli critici si sono riempiti la bocca di nomi altisonanti: Salinger, Fante e Bukowsky. Che dio (minuscolo) li perdoni, e non tanto per l'accostamento blasfemo, macché!
Il motivo è un altro.

Il libro di Frascella si inserisce in un filone che si ispira da un lato agli autori americani contemporanei e dall'altro a tutto l'immaginario pop della seconda metà del ‘900; un filone ormai a tutti gli effetti codificato in un "genere letterario" E su questo, niente da eccepire, anzi, sono state prodotte anche opere di ottima qualità. Quando però la creatività (anzi, la personalità) latita, si cade nella ripetizione del genere, cioé una sterile riproposizione in altre forme di formule e contenuti già visti.
Ma questo sarebbe ancora poco. Al di sotto della ripetizione c'è la citazione del "genere"; in questo caso l'autore si limita solo a infarcire il suo scritto di pochi elementi ben riconoscibili, si limita appunto a citare gli stilemi del genere ad uso di un pubblico di bocca buona, senza avere però il minimo spessore narrativo e di contenuto.
Il nostro Frascella è esattamente questo. Non pretendiamo la geniale immaturità di Arturo Bandini, e nemmeno la profonda e a suo modo calda devianza di zio Hank, certo, ma almeno di delineare i personaggi non solo come macchiette, almeno un po' di ricerca storica e di costume, e che diamine!
E' il tuo primo romanzo, giovane Frascella, presentati bene.

Per approfondire il personaggio, reputo utile sottoporsi all'ascolto di un paio di interviste:
Il nostro autore ha partecipato alcune settimane orsono alla trasmissione di Radio Tre intitolata "Fahrenheit", nella quale l'ottimo Marino Sinibaldi gli ha posto una serie di domande.
Si nota chiaramente l'imbarazzo del conduttore che deve far fronte a volte a risposte prive di significato, o meglio, deve estorcere i concetti al Frascella, evidentemente carente di logica, tranne quando oltre ai soliti nomi già noti, cita, senza alcun pudore anche Raymond Carver.

Oppure l'intervista con Simona Dandini, (sulla falsariga di quella a Radio Tre), da vedere anche solo per questo scambio di battute:
Dandini: "Salinger, Fante, sono nomi grossi (si riferisce ai paragoni fatti dalla critica)"
Frascella: "Si, forse troppo... anche meno... non so, Bukowsky va bene"
(segue la reazione interdetta della Dandini).

Altrimenti, se proprio vi volete fare male potete anche andare a cercare le perle del qualunquismo più becero che si trovano sul blog personale di Christian Frascella.

In conclusione tuttavia segnalo che questo libro ha ricevuto critiche entusiaste su pressoché tutti i giornali, si parla di trarne un film, ed è addirittura stato giudicato "libro del mese" dagli ascoltatori della succitata Radio Tre. Non basta: i critici dicono che questa narrazione è "vita vera", che ognuno di noi è stato così, che questo personaggio non è uno stereotipo...

Non so.
Un'ipotesi azzardata per il relativo successo di questo "componimento" può essere la correlazione che esiste fra la vitalità intellettuale, morale e sociale di un popolo o di un periodo, e gli autori che quel paese o periodo storico produce (entrambe prossime allo zero), ma più verosimilmente non ho capito proprio niente.

Va a finire che prima o poi mi tocca di leggerlo davvero.

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