A Bologna le decisioni si prendono in osteria oppure le idee vengono in osteria…così una sera qualunque ci trovammo di fronte ad uno di questi tavoli lunghi e grezzi a chiacchierare di calcio. Fuori nevicava. Faceva freddo, era giovedì. Non so perché mi venne in mente un vecchio film di Kasdan, “Il grande freddo”, e cominciai a raccontarlo. Io racconto molto bene ma quella sera li trovai particolarmente interessati al mio dire: facevano obiezioni, chiedevano precisazioni, raccontavano esperienze di carcere e di sopraffazioni. A un tratto fu chiaro a tutti: quelle chiacchiere si dovevano trasformare in qualcosa di meno effimero” (Claudio Lolli).

Nasce così “Il grande freddo” di Claudio Lolli, il suo ultimo lavoro uscito nel 2017. E’ morto l’anno successivo. Col disco ha vinto il “Premio Tenco” come miglior opera dell’anno, il premio più ambito per i cantautori andato finalmente al poeta bolognese dopo 45 anni di carriera ed un disco registrato grazie al crowdfunding, all’amore di chi gli ha sempre voluto bene. Con Lolli, in sala di incisione Danilo Tomasetta e Roberto Soldati, che avevano suonato nell’album “Ho visto anche degli zingari felici”, oltre a Felice Del Gaudio, Lele Veronesi, Pasquale Morgante e gli amici di sempre Paolo Capodacqua e Nicola Alesini. Il disco è impreziosito dai disegni di un artista pugliese, Enzo De Giorgi che ha dipinto le pagine del libretto contenente i testi.

“Il grande freddo” è quello che ci portiamo dentro. Della nostra incapacità di amare pur avendone le potenzialità: “quanto amore sprecato negli autobus tra gente che potrebbe volersi bene”. Un freddo che “si può sciogliere solo con le lacrime dei nostri furori” ma che rende la vita “soltanto una lotta ma troppo spesso una battaglia persa”. Una canzone sul sentimento del rimpianto dove alla fine Lolli, accompagnato dal fraseggio di un sax sopraffino recita il suo ultimo verso: “io ho lo sguardo perduto e le costole rotte”. “La fotografia sportiva” è tra i brani più belli di Lolli. In assoluto. Un pezzo sulle povertà del nostro tempo, dove “dobbiamo provare a sapere chi siamo e da dove veniamo”, sulla vita che è sempre frenetica, che va sempre di fretta e che non usa il freno in discesa. Il sax finale è un pugnale sottile, che affonda nella mente dalla quale affiora la trama di quegli zingari felici mai dimenticati. Il rimpianto torna nel brano “Non chiedere”, dove Claudio cita Montale, in cui il malessere esistenziale di cui tutti soffriamo o abbiamo sofferto brucia come una ferita aperta; un treno che si aspetta alla stazione pieno di amici per fare la rivoluzione, un treno che non arriva mai e che ti fa perdere ogni prospettiva (“ed il fatto che io non sogno più e dovrei” ci dice Claudio). La canzone, musicalmente splendida, è avvolta dal pianoforte di Morgante e da sax e armonica che la rendono una gemma preziosa. Ritengo “400000 colpi” (citazione di un film di Truffaut) un canto d’amore e di solitudine dove il “ti ricordi” di una casa, di un sole, di un corpo da amare ti porta fino all’attimo della morte perché si vive sempre insieme e si muore sempre da soli. Grande il finale con la chitarra di Roberto Soldati e il sax di Nicola Alesini. La voce di Claudio, anche se indebolita, è sempre quella “piena di ragni, di granchi, di rane e altre cose un po’ strane, voce da regno dei più o da festival del sottosuolo” definita così da lui stesso in "Autobiografia industriale". “Sai com’è” è un atto d’amore. La lettera postuma di Giovanni Pesce, partigiano, alla moglie Onorina Brambilla. Una dichiarazione d’amore, dove anche in tempo di resistenza si trova la maniera, il modo di fare l’amore (“basta poco all’amore, del buio o un letto o un prato. Basta poco all’amore purchè sia tenerezza”). La musica è di Marino Severini dei Gang. Gli arrangiamenti del disco sono superlativi e raffinati e si sente anche nel suono “bossanoviano” de “gli uomini senza amore”, la disillusione di non essere capaci di amare, di essere uomini che finiscono solo in letti morti e tristi e che fanno sogni solo pieni di fumo. Che fanno sogni solo da raccontare. Il cd ad ogni ascolto ti lascia qualche emozione in più, come in “Prigioniero politico”, non un pezzo autobiografico ma una dichiarazione quasi felice di non appartenenza. E’ chiaro che questo mondo non gli appartiene così Claudio si dichiara un prigioniero politico. Altro finale di Soldati e le sue chitarre che con arpeggi meravigliosi tornano nella disincantata “Principessa messamale” devozione per l’universo femminile anche se con risvolti avversi (“guarda il mondo come è cambiato, quello in cui abbiamo tanto creduto e il futuro come è passato senza chiederci neanche un minuto”). Nel finale recitato di “Raggio di sole” si assiste alla speranza che può donare il calore del sole. Sole pallido ma sole. E’ un sogno? E’ falso? La speranza è che il calore possa sciogliere tutto quel freddo che abbiamo dentro. Ma in Lolli (ovviamente) non ci sono certezze, il raggio di sole scompare per lasciare il posto nuovamente al freddo, ancora da vincere.

“Il grande freddo” è un lavoro di altissimo livello. Forse secondo solo all’inarrivabile “Ho visto anche degli zingari felici”. Caro Claudio ti dobbiamo tutti un po’ d’amore, perché anche se sei morto per noi sarai sempre Claudio Lolli.

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