In questa giornata di forte vento di maestrale mi viene di recensire un disco che disco non è. Almeno nel significato classico del termine. E’ uscito nel 2003 allegato ad un libro e si intitola “La terra, la luna e l’abbondanza” di Claudio Lolli. Un disco unico perché registrato qua e là lungo la Penisola senza, tra l’altro, sapere in che città è stato registrato questo o quel brano. Un disco quasi clandestino dove un poeta canta in maniera delicata e sublime, con rabbia e con amore, 10 bellissime canzoni accompagnato solamente da Paolo Capodacqua, bravissimo chitarrista.

Il disco comincia con “Curva sud” definita dallo stesso Claudio un ritorno dell’uomo alla bestialità della guerra con riferimento a quello che succedeva negli anni 90 nella Jugoslavia dell’epoca. Un ritorno di barbarie, come l’uomo che allo stadio, in curva, abbandona il suo status di sapiens e si trasforma in bestia. Un pugno nello stomaco credetemi. “La fine del cinema muto” è una canzone sul bisogno del silenzio, metafora della modernità, con gli attori del cinema muto che con l’arrivo del sonoro, perso il lavoro, si ritrovarono a fare le maschere nei cinema per passione, per nostalgia (“questo futuro si dice ci farà l’effetto di una bomba”). Il disco racchiude un vecchio canto anarchico scritto dopo la fine di Giuseppe Pinelli, volato giù dal quarto piano di un palazzo dello Stato, musicata da Lolli come una nena. Quello stesso potere viene narrato in “Analfabetizzazione”, ovvero il contrario dell’alfabetizzazione: con le parole ci hanno condizionato, plasmato, addomesticato e l’unico modo di Claudio per opporsi ad esso era proprio quello di cambiare il senso dell’alfabeto (“la mia madre l’ho chiamata sasso perché fosse duratura si ma non viva, i mie amici li ho chiamati piedi perché ero felice solo quando si partiva”). Dopo la struggente “Io ti faccio del male”, nel disco originale suonata quasi come un blues, si può ascoltare “Dita“, un battito d’ali, un sussulto al cuore, una gemma preziosa in cui Lolli prende spunto da un fenomeno che aveva visto a Volterra dove da un gruppo di nuvole appollaiate su un monte vide spuntare i raggi del sole come dita. La parte malinconica raggiunge il suo apice in “Quando la morte avrà” dedicata al padre con cui aveva un rapporto conflittuale ed “Angoscia metropolitana” la canzone che raccoglie più di tutte il senso di smarrimento dell’uomo rispetto alla società in cui vive. Un brano del 1972 attuale come non mai. Il reading si chiude con quella “Borghesia” tanto combattuta e criticata tanto da sentirsi quasi sconfitti. Il testo, infatti, è leggermente mutato nel ritornello: “vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, per piccina che tu sia il vento (forse) ti spazzerà via” e con “Adriatico”, altra canzone sul potere, che si manifesta nelle nostre vite in maniera subdola, con una terribile calma apparente, appunto come un mare calmo.

Onore a Claudio, lontano dai riflettori e vicino alle angosce del genere umano.

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