Nel giardino del bene e del male che Clint Eastwood ha messo in scena nel corso degli ultimi cinquant'anni e oltre, le parti in commedia - i buoni e i cattivi - non sono quelle che sembrano, quelle che sono state riservate dal destino e, soprattutto, dalla sceneggiatura dei media e dei procuratori federali.
Giustizia e verità sono concetti puramente teorici, ipotetici, quasi metafisici. Categorie dello spirito, all'interno di quel gigantesco caos che la civiltà prova a regolare attraverso la legge.
La vita, che sfugge via lasciandoti appena accorgere di questo passaggio quando è troppo tardi, è fatta di eventi imponderabili, variabili impazzite confuse nelle notti di freddo e pioggia.
La Giustizia dei tribunali - rappresentata dalla divinità romana Iustitia, più volte ricorrente nel film - può solo illudere di restituire dignità alla morte e un senso agli eventi, ma per l'appunto, sono troppi gli elementi di questo gigantesco caos. Troppi per essere messi in ordine secondo uno schema coerente e definitivo.
Le categorie manichee sono all'antitesi dello studio eastwoodiano della complessità delle vicende umane.
Il cinema di Eastwood è un monumento umanistico. L'umanesimo eastwoodiano abbraccia le mille sfaccettature dell'animo delle singole persone.
Tutta la sua opera insegna che dietro quel che appare come semplice, si nasconde troppo altro. Lo era in Mystic River, dove Dave Boyle tornava a casa ferito grondante sangue la stessa notte dell'uccisione della figlia diciannovenne dell'ex amico ed ex gangster Jimmy Murkum. Ma la verità era lontana da quella poi da quest'ultimo sentenziata.
C'era altro dietro, qualcosa di troppo banale per essere accettato, e al tempo stesso più profondo di un fiume.
E così, anche in Giurato numero 2, la verità non è situata lungo la strada della logica apparente.
Se nella Palma d'oro Anatomia di una caduta si doveva scegliere a quale verità credere, in Giurato numero 2 la scelta è ancora più difficile, perché porta a implicazioni etiche e morali dolorosissime, con cui convivere per il resto della vita. Ed è questo, quindi, il fulcro: la scelta individuale.
Nella visione eastwoodiana, ogni singolo può influenzare da solo il destino di pochi o anche di milioni di altri, consapevolmente o meno. Come la madre di Hitler che all'ultimo scelse di non abortire.
Il suo è l'individualismo di un uomo appartenente a una destra illuminata, una destra divina, che è dentro di noi, nel sonno, come la definiva Pasolini. E per questo nemmeno definibile secondo le semplicistiche contrapposizioni politiche binarie tradizionali.
È impressionante la lucidità con cui Eastwood, ancora oggi, a 94 anni, riesce a riflettere sull'uomo e le sue forme sociali.
L'America è da lui ripetutamente stata scandagliata nelle sue contraddizioni, nelle sue profonde oscurità.
Giurato numero 2 parrebbe rifarsi alla storica lezione di Lumet de La parola ai giurati, e invece è molto di più, prende direzioni inaspettate e inattese, fino ad un finale aperto e pieno di dubbi.
Eastwood, come tutti i più grandi artisti, pone le domande senza dare le risposte, rifugge le scorciatoie e il moralismo.
Ancora una volta, porta a termine un'opera magistrale e straordinaria. L'ennesima.
All'interno dell'ampia filmografia del regista de Gli Spietati, Giurato numero 2 si colloca appena al di sotto della categoria dei capolavori assoluti, e come protagonista vanta un enorme Nicholas Hoult, alla sua più importante prova fino ad ora in una carriera iniziata da ragazzino. Quando, assieme a Toni Colette, appariva nel gioiello About a Boy. Toni Colette che ora ritrova dopo ventidue anni.
Chissà che a Hoult questa prova non possa valere un Oscar.
Con Cry Macho, film estremamente e incomprensibilmente bistrattato, Eastwood ha dato il suo commiato alla recitazione, con Giurato numero 2 potrebbe averlo dato al cinema.
Se così sarà, sarà stato con un film stupendo, uno dei migliori di questa annata.
Per sempre, grazie immenso Clint.
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