GRAN TORINO

Le strade che portano al paradiso sono diverse anche per un cowboy, anziano giustiziere, che porta il fardello dei fallimenti della sua grande nazione. Walt Kowalski è un ex soldato, che assomiglia a un cowboy senza più mandria e senza più scopi, con una pistola che non può più usare, ormai logorata dalle efferatezze di guerre ingiuste, e con la mente e le mani segnate dalle cicatrici e dalla alienazione di una catena di montaggio di una industria di automobili. Contano più gli esseri umani o le cose? Decisamente le cose, come la sua brillante ed appetibile Ford Gran Torino messa in bella mostra ogni giorno davanti casa. I figli sono il prodotto dei genitori, ma anche lo specchio di una colpa postergata e riemersa quando l'età ti obbliga a fermarti e a riflettere. Gli altri sono gli altri e vanno tenuti a debita distanza, ma purtroppo te li ritrovi ogni giorno accanto, parlano una lingua diversa e ti guardano con diffidenza. E quelle villette così carine, in cui potrebbe vivere tranquillamente Doris Day col suo biondo parruccone, diventano teatri di violenza estrema, dove giovani senza valori giocano a fare i gangstern, dove lo scenario quotidiano non è quello di una gioventù bruciata, ma è quello maleodorante dei film di Tarantino, che ricorda tanto i campi di battaglia in Corea. Poi come in tutte le storie scopri che non puoi sempre avere l'auto con i vetri oscurati, scopri che gli altri in fondo forse sono migliori o peggiori di te o sono proprio come te, e quelli che sembrano i più sfigati hanno già messo la marcia giusta.

Questo film mostra una società in crisi, in preda a condotte incomprensibili e compressa dalla richiesta quotidiana di performance superiori, che ha completamente perso il controllo di sé ed assiste come uno spettatore passivo alla violenza, spietata nei fatti e ripugnante nelle intenzioni. Clint Eastwood tiene la scena e da solo muove le pedine di una storia dalla trama e dalle sorprese quasi scontate, ma dai particolari delicati. È un grande regista, ma è anche un attore eccelso, e questo film in fondo è un omaggio ai suoi maestri e in esso possiamo scorgere il Sergio Leone di tanti western, Michael Cimino, Buddy Van Horn, lo stesso Eastwood giovane regista anni ‘70.

Ed è perdonabile, oltre che comprensibile, quel peccato di sommessa autocelebrazione, quando la telecamera cattura i suoi occhi  misti di ghiaccio e disprezzo, ma nello stesso tempo carichi di triste e corrosa tenerezza.

È l'eleganza che commuove, come la colonna sonora firmata da James Cullum sullo sfondo di una strada che è la vita, percorsa da automobili che si incrociano, si sfiorano, si superano e non si toccano mai. Quelle macchine lucide siamo noi.

VOLGOS

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