E’ la storia di A, B e C.

Vivono con i loro problemi tre esistenze assai diverse che godono comunque di stabilità. Un equilibrio che si suppone sia figlio dell’esperienza e che, per quanto possa apparire flebile e precario, in qualche strano modo regge. Sono vite che proseguono filate, dritte come rette tracciate con una squadra di uno studio di architettura. Ma aspettare che tre linee parallele per miracolo si uniscano non è molto cinematografico e così la sceneggiatura crea per le nostre lettere degli imprevisti. Il percorso diventa nebuloso, incerto: denso di curve. Per quanto A, B e C siano lontani fisicamente l’uno dall’altro hanno in comune quell’elemento destabilizzante che progressivamente li fa avvicinare e successivamente incontrare in un punto solo. Un incontro risolutore necessario per trovare di nuovo quello che avevano perso e di cui hanno disperatamente bisogno. Le enormi squadre possono scendere dal cielo e tirare nuovamente altre tre linee rette. Si presume fino alla fine dei loro giorni, forse oltre. Titoli di coda.

L’oggetto del film come si può evincere dal titolo è il post mortem. Quell’enorme punto interrogativo che arrovella, ha già consumato o incuriosirà nel futuro, ognuno di noi. Almeno per un po’.

Il suo primo film che ho visto al cinema è stato "Mystic River" e se fossi un romantico ordinato, invece di un casinaro bastardo, credo che quel cartoncino lo conserverei. Da allora è diventata una piacevole prassi andare a vedere ogni suo nuovo lavoro seduto su una comoda poltrona al buio. E finora ne è sempre valsa la pena. Anche questo "Hereafter" si contraddistingue per il taglio elegante, dal sapore agrodolce, di una pellicola di rara drammaticità capace di mescolare tedio, solitudine e paura con dolcezza e speranza. Per quanto si possa intuire la struttura dopo pochi passi piace il modo con il quale si sviluppa la trama.

E se è vero che il succo del film possa sembrare banale, la morte come minimo comun denominatore dei protagonisti che porta alla loro rinascita, è altrettanto innegabile che Eastwood tocca con gelida spietatezza una serie di argomenti solo apparentemente secondari. Gli effetti reali della crisi economica, la silenziosa e desolante solitudine di giovani single, assistenti sociali e la tutela dei minori, droga ed alcolismo, competitività del mondo del lavoro, il dio denaro, rapporti sentimentali extra-coniugali ecc. Vengono sfiorati in successione questi tasti dolenti; fossero corde di una chitarra elettrica il suono che ne risulterebbe sarebbe un lieve arpeggio delicato, non certo un riff heavy metal. E quella grigia carezza di note vi accompagnerà per un bel po' di tempo, perché sono considerazioni e situazioni nelle quali ci specchiamo assai bene.  

Per tutto questo il finale, digerito a qualche giorno di distanza, mi pare doubleface: solo all’apparenza completamente speranzoso ed in realtà aperto anche ad altre acri considerazioni lasciate nascoste, quasi come un ghost track alla fine di un disco. Nel senso che se poi alla fin fine dovessimo semplicemente chiudere gli occhi non sarebbe poi questo gran male, vista la drammaticità del vivere odierno.

Piace il ritmo lento delle scene, in simbiosi con la preziosa colonna sonora, e la struggente dolcezza di diversi passaggi che potrebbero rendere consigliabile, a chi è solito commuoversi, un corposo pacchetto di fazzoletti a portata di mano. Pochi dialoghi, tanti pregni e forti silenzi e prove recitative di spessore a partire dal giovane Frankie McLaren passando per la bellezza francese Cécile de France e finendo con il sempre più massiccio Matt Damon. Il montaggio delle scene è, come ormai diventata una piacevole abitudine, appagante e la delicatezza e la forza di certe scene inossidabile. Insomma il solito geniaccio di un Clint dietro la cinepresa per una pellicola da gustarsi comodi, possibilmente al cinema.

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