C'è una sbavatura. Nel film la giornalista Kathy Scruggs baratta la notizia in cambio di sesso. E quelli dell'Atlanta Journal-Constitution non l'hanno presa bene, per usare un eufemismo. Ma alla fine questa macchia nella sceneggiatura di Billy Ray illumina ulteriormente il nodo della questione: siamo tutti (giornalisti, narratori, registi) innamorati di una notizia che diamo per certa, di un'idea che non vogliamo scrollarci di dosso, di un ritratto approssimativo che ci siamo fatti e riteniamo infallibile. La violenza dell'informazione che può distruggere vite, anche solo nel suo processo di verifica. Come per Heisenberg, misurando il fenomeno lo alteri.
Raffigurando la giornalista come una rapinatrice di notizie che colpisce il basso ventre, Eastwood e Ray non fanno altro che rafforzare e rendere più evidente il significato del film: in questo mondo ultra-mediatico non conta tanto la verità, quanto una sua narrazione che sia abbastanza funzionale e credibile. Clint fa l'errore che stigmatizza, e questo ci dice quanto sia endemico nell'oggi che viviamo quell'errore. È ovunque, lo vediamo ogni giorno con i processi mediatici che vengono avanti in tv e sui giornali. Chi si preoccupa delle vite di quei colpevoli designati?
Come le tessere di un mosaico spietato, i film del Biondo si completano e dialogano con piena organicità. Se The Mule evolveva da Gran Torino, questo è un po' il ribaltamento prospettico proprio di The Mule: là c'era il colpevole insospettabile e quindi per tutti “innocente”, qui c'è l'innocente molto sospetto e quindi “colpevole”. Ma c'è anche molto di Sully, però in una forma meno sottile e tecnica, più mediatica e farsesca. Va in scena un processo senza fondamento sulla pelle di Richard e mamma Bobi, barricati in casa. È Sully degenerato.
E c'è molto altro, come i rapporti di forza tra stampa e forze dell'ordine. I giornali pendono dalle labbra dell'Fbi, ma quando escono coi titoloni, impongono una sorta di dovere ulteriore all'autorità che deve dare conferma a quanto scritto, perché alla gente quell'idea sembra piacere. Emerge nitidamente che il percorso analitico non è mai neutrale, ma teso alla costante conferma di un'opinione a priori.
In questo sistema tendenzioso, la cristallina trasparenza e fiducia del grasso protagonista appaiono anacronistiche. Fuori dal tempo. Lo stesso avvocato difensore (un bravo Sam Rockwell) usa i metodi e le categorie di Fbi e giornali, non ha fiducia piena nella forza soverchiante della verità, sa che una tendenza nell'opinione pubblica può contare più delle manchevolezze della tesi. Un richiamo ai temi del J'accuse di Polanski. La verità è un percorso travagliato, pieno di tranelli, un parto rischioso.
Tanti contenuti e non tantissima visione, perché la vicenda non ne consente granché. Manca un po' del sentimento dei film in cui Clint recita anche. Quella sua visione amara filtra meno attraverso attori-mezzo. Solo Clint rende giustizia a Clint. Le rotondità di Paul Walter Hauser non sono espressive come le rughe del vecchio regista. Anche se il sentire è ugualmente intonato in termini morali.
Da apprezzare la totale noncuranza del cineasta nella scelta di un soggetto poco accattivante per il grande pubblico. Protagonista obeso, non simpatico, pignolo e impacciato. Antagonisti che in fondo siamo noi, sono le figure istituzionali di cui tendiamo a fidarci (o forse tendevamo): le forze dell'ordine, la stampa. Noi.
Emerge un malessere complessivo per l'ineluttabilità del dolore che il sistema porta con sé: come spettatori e cittadini ci sentiamo vittime e carnefici, ingranaggi incoscienti di un meccanismo perverso. Come i giornali non possono non dare le notizie, le autorità non possono non indagare, noi non possiamo non indignarci a comando e poi fare completa retromarcia, in balia come siamo di parole che pesano e feriscono. Mortificano.
Carico i commenti... con calma