Parlare male dei Coldplay ormai va di moda, su ogni post loro dedicato le critiche si contano sempre a grappoli. Ma siamo sicuri che queste siano davvero meritate? Le persone hanno davvero ascoltato, approfondito, analizzato la band? O semplicemente li hanno “sentiti”? Vediamo di andare a fondo.

“Music of the Spheres” è la complementare stilistica ravvicinata nel tempo di “Everyday Life”, più o meno allo stesso modo in cui “A Head Full of Dreams” lo era per “Ghost Stories”, in entrambi i casi si tratta di un disco molto pop ed immediato che esce a breve distanza da uno invece più difficile e ricercato, praticamente come risposta. Analizzando il cammino artistico dei Coldplay si possono riconoscere due fondamentali periodi: nel primo abbiamo una band di pop elettroacustico intimista e non proprio di primissimo impatto, in grado comunque di ritagliarsi posizioni significative in classifica; il quarto album “Viva la vida” è l’anello di congiunzione fra i due periodi, quello in cui comincia a sentirsi qualcosa di accattivante, ma è fondamentalmente il successivo “Mylo Xyloto” che inaugura definitivamente i Coldplay “per tutti”, quelli per chi non c’ha voglia di ascoltare, quelli delle tette che ballano allo stadio e dei coretti preconfezionati e pronti per essere cantati anche dal più stonato. Ma come abbiamo appena detto… in questa fase di facile presa vi sono comunque album più oscuri, quindi si può affermare che questa era “easy” non sia mai davvero esistita. Basterebbe già questo ad affermare che i Coldplay non sono proprio la band ideale da deridere, ma anche se analizziamo ciò che troviamo all’interno di ciascuno di questi presunti lavori commerciali ci accorgiamo che stiamo mettendo alla gogna la band sbagliata.

Così addentriamoci nel reticolato di “Music of the Spheres”. Che si tratti di un album pop siamo tutti d’accordo, si tratta fondamentalmente di brani che in radio performano molto bene, che si tratti invece di musica piatta e poco interessante come gran parte della produzione mainstream ho forti dubbi, anzi lo escludo. La cosa che colpisce è l’atmosfera molto anni ’80 che caratterizza diversi brani. Gli anni ’80 sono forse il periodo più vituperato della storia musicale recente, per mano perlopiù di quegli snob che non vogliono riconoscere che anche la musica pop può avere forti potenzialità creative ed artistiche e che vedono i sintetizzatori come un’impurità anziché un’opportunità; un periodo criticato ma chissà come mai sempre poi rispolverato, com’è successo anche in questi ultimi anni, fra vita alta, spalline e giacche extra large. Erano gli anni in cui i suoni erano artificiosi sì ma venivano curati nei particolari e facevano veramente la differenza, non come quanto successo negli ultimi vent’anni dove la musica commerciale è un’oligarchia di beat scarni e frastornanti e suoni piatti e poco udibili. I Coldplay qua prendono quel tipo di suono limpido e sgargiante e lo ridisegnano in chiave moderna, attingono a piene mani dal synth-pop e dall’AOR e attualizzano il tutto. Già a partire dal singolo portante “Higher Power”: i suoi suoni sono come dei bagliori di luce che si accendono ad intermittenza, sembrano rappresentare delle lucciole che illuminano la notte. “Humankind” e “Infinity Sign” sono a metà strada fra il brano synth-pop e l’inno da stadio, alternano giri in loop di synth ipnotici a tastieroni sgargianti di evidente estrazione AOR, la prima sembra una sorta di “Jump” dei Van Halen in versione pop. “My Universe” - cantata assieme ai sudcoreani BTS e con versi in lingua coreana al suo interno - attinge dalla disco e dal funk, ha sonorità a cavallo fra anni ’70 e ’80, con delicati tocchi di chitarra e basso nelle strofe prima di sguinzagliare i synth alla massima potenza nel ritornello. Sono brani il più pop possibile, che non perdono d’occhio il conto in banca, ma un sound lo hanno eccome, i suoni si sentono, si percepiscono bene e sono ben studiati, sono brani che vogliono essere diretti ed accattivanti ma vogliono mantenere una certa dose di dignità musicale.

Ad essere sinceri le tracce etichettabili come “ordinarie” finiscono qui, vi si aggiunge al massimo la ballad “Let Somebody Go” (cantata in duetto con Selena Gomez), dotata di una buona profondità emozionale ma comunque lontana dall’essere particolarmente struggente; il resto, praticamente gran parte dell’album, è ricco di cose particolari, alcune persino in grado di mettere in discussione la natura commerciale del disco. Tanto per cominciare è particolarmente intrigante l’approccio di “People of the Pride”: è una cavalcata hard rock e blues ma i Coldplay riescono a farla suonare rigorosamente pop, suona così pulita e leggera che non prendi nemmeno in considerazione l’idea di trovarti di fronte ad un brano rock. Alquanto strana anche “Biutyful”, una chitarrina leggera dal tocco jazzato e una voce infantile, una sorta di bossa nova europeizzata che non può certo passare inosservata. Ma per andare su territori veramente incogniti bisogna ascoltare “Human Heart”: se nel precedente album c’era “When I Need a Friend” ora giocano nuovamente la carta gospel, e lo fanno con una melodia a cappella notturna ed inquietante, un esperimento che potrebbe ricordare vagamente quello di “Hide and Seek” di Imogen Heap, di certo non un brano progettato per sfondare in classifica.

L’album rivela anche un’atmosfera celestiale o perfino spaziale (non dimentichiamo che si tratta di un concept album ambientato in un immaginario sistema solare), e a confermarlo vi sono anche dei brevi interludi cosmici; onestamente potevano risparmiarsi “Music of the Spheres II”, mentre la prima “Music of the Spheres” e “Alien Choir” sono invece dei bagliori corali e celestiali veramente belli, come se i Coldplay volessero suggerirci di non considerare inutili gli interludi di collegamento e che dietro di questi si possono nascondere piccoli capolavori.

La smerdata definitiva però arriva alla fine. A sancire ufficialmente la bravura dei Coldplay come compositori ecco che questi piazzano addirittura un brano di 10 minuti, “Coloratura”. Chissà in quanti si saranno sorpresi a leggere un simile minutaggio, abituati come sono ai canonici 3-4 minuti e non essendosi mai avventurati in territori di musica progressive o sperimentale; e chissà quante volte ci siamo chiesti come mai la stragrande maggioranza delle canzoni ha quella durata standard… David Byrne nel suo “Come funziona la musica” analizza il modo in cui il supporto fisico ha influenzato la composizione nel tempo e individua l’ipotesi che a sancire questo format sia stata probabilmente la diffusione dei 78 e 45 giri e la necessità di far rientrare il brano in una facciata del disco, non escludendo tuttavia che in passato le composizioni popolari potessero essere anche più lunghe. Ritornando sul brano, anche in questo caso i Coldplay non vogliono andare sul già sentito, questi 10 minuti non sono uno sterile tentativo di scimmiottare la solita composizione progressive rock, è una composizione originale che mischia alla perfezione psichedelica e musica classica, con parti di piano delicate, archi sfavillanti e arpe allucinogene. Poi l’idea di sceglierla come singolo è un atto di coraggio, è un modo per mandare un messaggio: la musica non è fatta solo di canzoni ballabili ma anche di viaggi sonori nel quale non bisogna aver paura di addentrarsi, la musica è anche ricerca e sperimentazione, dovete aprire i vostri orizzonti e cambiare il vostro concetto di musica.

E quindi? A cosa serve questo lungo discorso? Semplicemente ad affermare che non sono proprio i Coldplay la band con cui prendersela. Sono una band pop al massimo ma lo fanno con criterio, e sanno in ogni caso andare oltre, persino stupire. L’unico album forse criticabile, in cui il sound si era davvero appiattito ed abbassato al compromesso commerciale, era “Mylo Xyloto” ma anche lì il discorso è lungo, visto che c’erano anche lì una bella manciata di tracce più profonde ed intense. Il mio consiglio rimane: scegliete altre band ed altri artisti con cui prendervela.

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