Un paio di mesi fa è scattata una scintilla dell'ammore tra me e questo album di Colin Newman. Riflettevo, a latere, sull'esigenza da parte di alcuni artisti, di togliersi di dosso al più presto quegli anni Settanta e strizzare l'occhio al decennio successivo, meno aggressivo e più elegante, romantico, astratto, etereo. Newman è il frontman degli Wire, una delle band più interessanti, incastonata come un gioiello in quel "fine anni Settanta" che ben presto, da moto rivoluzionario pronto a cambiare tutto, cambia, a sua volta, ancora tutto. Penso agli Xtc di Partridge, a Sylvian e lo stesso Newman che scoprono il discreto fascino del completo elegante e qualche girotondo di mascara, chi più, chi meno.
Potrei anche citare i vituperati Spandau Ballet, ché in fondo pure loro volevano andarci giù pesante, salvo poi capire che du colpi de gel e l'aria da boni era più in tune rispetto a To cut a long story short.

Gli anni Ottanta avevano suoni nuovi, i sintetizzatori tornavano in auge, non più considerati come una barocca e ingombrante consuetudine stilistica tipica di quel "prog", impegnato e di maniera. Il Synth diventa sexy, diventa un tappeto; si presenta al cospetto della digital revolution come una sorta di sigillo di garanzia sull'estetica del suono che caratterizzerà, e non poco, quel decennio. Gli album da solista di Newman non sono stati un successo inenarrabile, niente a che vedere con gli ottimi riscontri di David Sylvian, probabilmente più a fuoco, più "ruffiano", nell'esprimere il suo talento.

Commercial Suicide è datato 1986, anno in cui i Talk Talk di Mark Hollis presentano The colour of Spring, per pareggiare lo smacco dell'album precedente viziato da quella tamarrissima "Such a shame". Newman mette da parte buona parte dell'estetica tipica del suono degli Wire anche se è facile intuire qualche idea sussurrata in Chairs Missing che comunque lasciava intravedere altre esigenze stilistiche da capitalizzare in altri contesti.

Del resto, non tutti sono i Talking Heads, che al grido di tutti per uno, uno per tutti, passarono dalle produzioni astruse di Brian Eno a intelligenti ballate Marimba, Calypso, consonanze da spot pubblicitario e allegria.

Commercial suidice è una bella produzione, con una cura dei suoni che merita di essere conosciuta e apprezzata, mentre la voce di Colin Newman, a tratti, conserva quel cantato "dirty" e atonale del tempo che fu, consegnandosi, nei brani più morbidi, a una voce più pulita ed elegante, impreziosita da archi e contrappunti; qualcosa che, in brani come "But I..." può ricordare ciè che saranno gli XTC di Apple Venus.

Non so cosa ne pensano gli ammiratori più accaniti degli Wire del periodo solita di Newman, affascinati o forse no, da questo suono ambient-sintentizzato, con un fretless bass e pianoforti "stellari" che in quel periodo li potevi sentire anche in un brano di Lena Biolcati a Sanremo.
Io stesso ho aspettato molti anni prima di aprire questa porta, galeotta "Feigned Hearing" che considero il brano più bello dell'album; altri come "Can i Explain the Delay", rischiavano anche di diventare un'acchiappa charts.

Rimane il fatto che gli anni Ottanta hanno lasciato piccoli grandi capolavori nascosti o poco raccontati. Commercial Suicide, indubbiamente, è uno di questi. Quando lo ascolterete, rivedrete quel decennio lì, in tutto il suo bene e anche in qualche scivolone estetico, forse meno narrativo di qualche accordo sbagliato negli anni del fuckin' away.

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