I Crippled Black Phoenix per me sono tanto. Sono un concerto indimenticabile. Sono una primavera piena di pomeriggi duri sui denti che bisognava diluire nella musica. Sono, soprattutto, un’amica che non c’è più e che li adorava. E che avrebbe adorato anche queste note. A Malaika.

Un supergruppo non può che scrivere un superalbum. I Crippled Black Phoenix, basati soprattutto sul quartetto Justin Greaves (Electric Wizards) Dominic Aitchison (Mogwai) Joe Volk e Kostas Panagiotou, già prima del debutto di due anni fa (“A Love Of Shared Disasters”) avevano promesso la pubblicazione di una trilogia di endtime ballads sospese tra i generi, gli influssi e gli umori. Grane in fase di registrazione e complicazioni con l’etichetta fanno sì che gli album 2 e 3 escano assieme in un cofanetto deluxe (per un totale di 19 canzoni e circa 2 ore di musica) o antologizzati in una sorta di mini best of (“200 Tons Of Bad Luck”, 12 canzoni) pubblicato controvoglia per accontentare la Invada di Geoff Barrow. Un bel casino.

E un bel casino, ma bello davvero, è l’insieme dei due dischi raccolti nel cofanetto. Dentro “The Resurrectionists” e “Night Raider” ci sono Pink Floyd e Black Heart Procession, Godspeed You! Black Emperor e Tom Waits, post rock e dark folk, neo-prog e doom rock, epica nordica e sentimentalismo freak, con sconfinamenti persino in territori non battuti nel debutto, dal folk balcanico (“Bat Stack”) a quello britannico (“A Hymn For A Lost Soul”), il tutto condito da inserti lo-fi, intervalli ludici, code o incipit slegati, frammenti di spoken word.

La somma dei due dischi è labirintica, ed offre un’immersione sonora dalla quale è difficile uscire senza suggestioni. È forse “The Resurrectionists”, più cantato, ad offrire gli spunti migliori, mentre “Night Raider”, compresa la mastodontica suite “Time Of Ye Life/Born For Nothing/Paranoid Arm of Narcolectic Empire” (18 minuti, con finale di space-rock tarantolante), si muove soprattutto tra spazi strumentali (eccellente, tra i pezzi cantati, “Onward Ever downwards”), raggiungendo in “I Am Free, Today I Perished” un annientamento in equilibrio tra disperazione e serenità.

I Crippled Black Phoenix sono epici, ma assieme introversi, sempre rustici fino quasi al passatismo. Evocano i grandi mari del nord e le colline verdi, per poi chiudersi dentro stamberghe che sanno di vino e paglia. Sanno coniugare un buio tumultuoso, con sfumature grunge (“Rise Up And Fight”, “444”, “Song For The Loved”), a una distensione quasi limpida. Pezzi come “200 Tons Of Bad Luck” o “Little Step” aprono nostalgie struggenti che mancavano nell’esordio, e la prima, in particolare, con una fisarmonica e cori chiesastici, resta nel cuore, anche se è dove l’amarezza si fa dura e graffiante che la band dà il meglio (“Burnt Reynolds”, “Human Nature Dictates The Downfall Of Humans”: eccellente il finale orchestrale).

Difficile riassumere in poche righe tutto ciò che questi dischi esprimono. La miniera sembra inesauribile, e anche dopo ascolti ripetuti ci si trova a scoprire passaggi nuovi, ad apprezzare momenti non notati prima, ad essere folgorati da un violoncello che aveva lasciato indifferenti (quelli di “Whissendine” e “Please Do Not Stay Here” spiccano subito), a ritrovarsi inciso addosso un movimento melodico diverso. Con buona pace di chi pensa che ‘less is more’. I Crippled Black Phoenix hanno fatto centro di nuovo.

 

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