Lo scenario che si propone ai nostri occhi è quello della New York degli '80, periodo in cui l'hardcore a stelle e strisce è scosso da una profonda crisi che rinnovò quasi completamente gli ensamble nel circuito musicale. Una fase caretterizzata da scelte ideologiche ed artistiche discrepanti che condizioneranno la scena. Appartenere a stati (e in molti casi a città) differenti finì per creare quella diaspora musicale che, in breve tempo, portò alla nascita di sotto-generi a seconda della zona di origine (Boston, Washington, New York, etc..), un esodo culturale che darà vita per più di 10 anni a band fondamentali ed ormai storiche. Tra queste i Cro-Mags, diventati subito un punto di riferimento ed una delle massime espressioni. Nati con idee che abbracciavano sonorità hardcore post-punk, sono tra i primi (insieme a D.R.I. Agnostic Front e Suicidal Tendencies) a fonderne i ritmi incalzanti ed aggressivi con i riff taglienti e tecnici del metal senza per questo intossicarlo, in una nuova miscela tanto devastante quanto vincente.

Dopo anni di gavetta nei club oscuri della Grande Mela, Harley Flanagan e soci guadagnarono la ribalta nel 1986 con ''The Age of Quarrel'', che nel giro di poche settimane incassò numerosi consensi, diventando uno dei capisaldi del genere, tanto che ancora oggi viene considerato come uno dei capitoli fondamentali nella Bibbia dell'hardcore. Un concentrato di rabbia capace di fondere, come dicevo, le esagerazioni del punk con lo sfrenato e veemente thrash (ibrido che diverrà poi ancor più compiuto ma meno allettante nel successivo ''Best Wishes''), tra riff irrefrenabili come una mandria di cavalli selvaggi al galoppo ed il mosh più irriverente ed esagitato.

15 schegge impazzite per 32 minuti (praticamente un record per il genere). Una scarica di adrenalina, un concentrato di rabbia primordiale che ci aggredisce senza compromessi, travolgendoci a partire da ''We Gotta Know'' (ed il fatto che l'abbiano ripresa pure i Sepultura dovrebbe dire tutto) passando per ''Show You No Mercy'', canzoni che fanno capire la vera attitudine della band, allergica alle facili utopie ed alla cultura Hippie; una visione politico-sociale sfacciatamente anti-anarchica che li porterà ad essere mal visti da una frangia rilevante della scena hc statunitense.

La violenza della strada, la realtà urbana, sono riferimenti autobiografici che ricorrono spesso nel disco, in un contesto crudele all'inverosimile (New York in quegli anni era la metropoli più infuocata d'America), elemento che riesce a scatenare tutta la rabbia che i nostri hanno in corpo (''Street Justice'', ''Survival of The Steets'') in un grido furioso e liberatorio. L'altra faccia della medaglia sono le tematiche filo-religiose, come in ''Seekers of Truth'' o in ''World Peace'', dove la ricerca e l'avvicinamento alla tradizione spirituale induista del ''Hare Krsna'' sembrano sublimarsi in un velo di speranza, attraverso l'ugola carismatica e schizzata del cantante John Joseph (che in seguito ne sposerà completamente i dettami). Ma è ''Hard Times'' il gioiello dell'album, il pezzo che meglio di tutti racchiude l'essenza musicale di questa band in una perfetta fusione tra vitalità e impeto pogatorio. Una chicca da sentire e risentire, con un testo che fa capire, per chi non lo sapesse, cosa vuol dire suonare questo genere (''Hard times are comin your way/But never surrender, never go down!'').

Un mito alimentato negli anni, dunque. Se gente come Biohazard, Helmet e RATM prima e Slipknot, SOAD e Korn poi sono comparsi sulle scene, lo devono, in parte, anche a loro.

Imprescindibili.

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