Bigger than life. A tutti gli effetti.

Più grande della vita e anche della morte. Un'arte, quella cinematografica, che seppur per troppo tempo (e ancora oggi, in verità) è stata considerata "minore" - aspetto, questo, che Chazelle fa benissimo a trattare di petto, anche rabbiosamente -, è capace di trascendere le leggi del tempo e dello spazio e va oltre alla mortalità, che poi è la condizione primaria e ultima dell'esistenza umana. La caducità, il materialismo, il crepuscolo a cui tutti, inevitabilmente, prima o dopo andiamo incontro. La vita di un attore, poi, si sa, è ulteriormente accelerata rispetto a quella delle altre comuni persone. L'attore, quando specialmente questo non è semplice comparsa ma Star, come i replicanti di Blade Runner, "brucia la candela da entrambi i lati", arde il doppio, risplende con maggiore intensità, attira a sé una quantità apparentemente infinita e abbagliante di luce. Ma paga il conto successivamente, bruciando in fretta e spegnendosi inesorabilmente e con una quantità doppia anche di dolore e tristezza.

È il viale del tramonto, la legge dello spettacolo, la condizione che viene implicitamente accettata in cambio della sensazione di avere le luci su di sé, le Luci della Ribalta, il primo piano.

Hollywood, in quanto centro mondiale di questo grande e costoso spettacolo, è come un mondo a parte, o meglio, un mondo in cui tutto è ingigantito ed estremizzato. Nei ritmi, nei guadagni e anche nelle miserie, nelle cadute. Perché tutto ha un prezzo e non tutti riescono a sopportare la condizione contrattuale non scritta di cui sopra, l'idea di essere un'icona immortale pur vivendo la propria prigione della carne. Non è facile accettare il proprio destino, non è facile accettare la dissoluzione come lacrime nella pioggia. Il tempo e il progresso sono quel che rinnovano tutto, ma che lasciano dietro di sé anche tutto il mondo precedente, in un mucchio di cenere e rovine di un'epoca gloriosa ma terminata, passata, che può rivivere solo nei ricordi e in senso metafisico. Che è comunque più di quel che avviene a tutti gli altri, ma forse non abbastanza. Non per tutti, almeno. Tra chi vive in prima persona questo declino, questa conclusione.

Le stelle cadute di Hollywood sono come l'ultimo Imperatore di Bertolucci, messo da parte in nome di un cambiamento epocale. Necessario ma dolorosissimo. In fondo il passaggio dal cinema muto e quello sonoro resta la più grande della rivoluzioni ancora oggi, nonostante i diversi altri cambiamenti del cinema. Dall'uso del technicolor, ai continui progressi tecnologici in generale. Ma nulla è mai stato così dirompente e traumatico come il passaggio dal muto al sonoro. Nulla ha avuto lo stesso effetto da pre e post, e questo all'interno della stessa industria, portando via con sé la gran parte dei protagonisti del vecchio mondo. Condannati poi ad un progressivo e insopportabile oblio, che diventa inaccettabile e porta alle estreme conseguenze. Solitamente con uno sparo.

A chi dice "ma in fondo il cinema aveva già raggiunto il massimo del suo splendore ai tempi del muto", io rispondo da sempre che questo è in parte vero, ma senza il sonoro non avremmo avuto Viale del tramonto di Billy Wilder. Il film che parlava proprio di questo, di una Star del vecchio mondo che non poteva accettare di non avere più il suo primo piano. E non a caso, Gloria Swanson, che per paradosso è stata resa immortale proprio dal film di Wilder piuttosto che dalla sua carriera da diva del muto, viene citata più volte in Babylon.

The Gates of Babylon: Hollywood. Si diceva.

La Babilonia moderna. Centro di ricchezza, potere, sesso, abiezioni e criminalità. Anger ed Ellroy ne hanno scritto ampiamente. Chazelle, ora, si unisce ai già molti e illustri predecessori che hanno cantato di tutto questo, tra malinconia, tristezza, divertimento ma soprattutto uno smisurato, spassionato amore per quest'arte che aiuta a vivere, mette al riparo dalla solitudine, diventa luogo protetto e intimo focolare, ultimo rifugio. È questa la più grande dote di Babylon: parlare del cinema non facendone il solito omaggio alla grande "macchina dei sogni", ma parlarne come di un rifugio, appunto, dalla solitudine. Come, in fondo, fece anche Woody Allen ne La Rosa Purpurea del Cairo, in quell'indimenticabile finale, con Mia Farrow che davanti ad un grande schermo ritrova l'unica possibile consolazione alle sue amarezze e delusioni. O in Hannah e le sue sorelle, dove lo stesso Woody, dopo aver meditato il suicidio a seguito di una delle sue tipiche crisi esistenziali, desiste dall'intento, trovando uno stimolo vitale all'interno di un cinema, pensando che, in fondo, anche se non esiste nessun Dio e dopo la morte non c'è nulla, vale comunque la pena di vivere in un mondo in cui c'è un'arte capace di farti ridere come guardando un film dei fratelli Marx.

Al netto di alcune imperfezioni, magari, di alcuni momenti in cui Chazelle fa fatica a contenere la sua immensa foga (fellinismi/sorrentinismi a volontà nelle scene di balli e feste, Robbie praticamente sempre sopra le righe) e i virtuosismi, al quarto film realizza la sua opera più grande e ambiziosa, e il suo miglior lavoro. Parlando a noi e di noi.

Chazelle, ora, dopo Tornatore, Paul Thomas Anderson, Scorsese, Tarantino... anche Babylon è un affresco di ascesa e caduta, di nostalgia e fede incondizionata nella magia del cinema. Nella consapevolezza che, certo, Hollywood inghiotte ogni cosa, lasciando ceneri e rovine come alla caduta di un Impero, ma che nonostante tutto ne varrà sempre la pena. Il gioco varrà sempre la candela, anche se questa brucia da entrambi i lati. Anche se ogni stella è destinata a cadere e ogni attore condividerà lo stesso destino dell'ultimo Imperatore Pu Yi. Perché è qualcosa che va oltre al singolo individuo, che sia Star o comune lavoratore, macchinista, operatore, produttore, comparsa.

Se è vero che nel mondo moderno nulla è sacro, ancora resiste una preziosa eccezione: il Cinema.

Un film gigantesco che al netto di ogni possibile difetto, ogni appassionato deve assolutamente vedere. Peccato per le critiche molto snob che sta ricevendo. Da parte magari degli stessi individui criticati nel film, che non capiscono il significato profondo del cinema, continuando a considerarla un'arte minore.

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