Damon Albarn mi ha sempre dato l’impressione di uno studente. Sarà per la sua aria sbarazzina da eterno ragazzo o perché quando scoprii la sua musica ero io lo studentello di liceo. E lui, conforme all’idea che mi ero fatta di lui, ha continuato a studiare la sua materia: la musica pop applicata. Pare proprio che fin dagli esordi abbia voluto seguire una sorta di percorso iniziatico, partendo dagli studi di base con i Blur, con risultati a tratti già egregi, approfondendo la cultura contemporanea nella band fumettistica dei Gorillaz votata ad un modernissimo sound, calandosi poi in esperienze di musica tribale prima (Mali Music) e di rock più tradizionale poi (The Good, The Bad & The Queen). A quarantasei anni, forse soddisfatto di quanto appreso, ha ritenuto sia giunto il momento di pubblicare di fatto la prima musica a suo (unico) nome.
Di certo da un così attento e originale musicista non ci si poteva aspettare una banale ripresa di quanto già fatto. Everyday Robots è infatti un sorprendente album di brani intimi e carezzevoli, intervallati da sporadici episodi pop. Forse la bella title track, dalle vaghe rimembranze Radiohead, non rende giustizia né completa testimonianza di quanto Albarn ha composto. Ascoltate in cuffia la suite You And Me, prodotta a quattro mani con Brian Eno e realizzerete quanto questo artista sia ormai maturo e capace di plasmare la materia che ha sotto mano. Diffidate pure della più rodata in radio Heavy Seas Of Love, con Eno ancora presente, anche se in questo caso alla voce: è un riuscitissimo gospel dal sapore beatlesiano, ma siamo sempre su toni troppo familiari e convenzionali. Perdetevi invece nella cupa Hollow Ponds, dove il nostro sfoggia un’attitudine alla composizione alla Roger Waters, usando il tono colloquiale e sofferto caro al genio creativo dei Pink floyd.
Di assoluto valore la scelta dei testi, per i quali Albarn ammette candidamente di aver dovuto profondere il massimo impegno per un suo limite naturale nello scriverli. L’idea di mettere per la prima volta nero su bianco proprie esperienze personali è stata arricchita da una altrettanto personale visione sulla società contemporanea. Lonely Press Play ne è l’esempio più semplice e pregnante: arrhythmia, accepting that you live with uncertainty, if you're lonely press play, dove con notevole capacità di sintesi ci invita ironicamente a premere play su qualunque dispositivo abbiamo a portata di mano, per sfuggire ai mali che ci affliggono. E la tecnologia, invasiva e strisciante, dei tempi che viviamo, è citata quasi con angoscia anche nei pezzi più personali come Photographs (You Are Taking Now) e The Selfish Giant.
Cosa divide questo ottimo lavoro dal capolavoro che a questo punto ci aspettiamo da Damon? Di sicuro una certa generale pesantezza, musicale e tematica. Non basta la gioiosa Mr.Tembo a spezzare il ritmo, sempre molto lento, e sarebbe stato gradito almeno un altro episodio uptempo. Il risultato positivo e indiscusso è invece l’entrata ufficiale del nostro nel novero dei grandi autori inglesi. Le aspettative sono sempre più alte e Damon di sicuro sarà all’altezza.
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