La vita di Jaeckie Zuckerman è molto simile all‘armadio nel quale custodisco e relego libri, appunti e quaderni del mio iter scolastico. Etichette scritte al loro tempo in bella e preziosa calligrafia per separare le materie, dispense pinzate e centinaia di plasticose buste si accavallano, si incaprettano ora in un’orgia selvaggia con l’immenso dizionario di latino “IL” nel ruolo di indiscusso stallone protagonista e regista. Chiudo le ante tremando al solo pensiero di quando, più prima che poi, dovrò decidermi a fare ordine o ad appiccare un bel falò.

Dani Levy, segue l'amico e regista Becker di "Good Bye Lenin", e ci offre un'altra storia della Germania Est post unificazione che diventa teatro delle scorribande di un ex giornalista sportivo. Dopo il crollo fatica a trovare un nuovo equilibrio nella sua incasinata esistenza e con triste sguardo pensa sovente, con un bicchiere in mano, ai bei tempi andati. Un ottimo Hubchen interpreta il personaggio di Jaackie, mentre a completare il quadro familiare ci pensa la disperata/innamorata moglie Hannelore Elsen e l’imbranato, balbuziente e palestrato figlio. C’era a mio modesto parere abbastanza carne al fuoco per sgranare una commedia con punte drammatiche sul problema dell’adattamento focalizzandosi su chi, dall’altra parte del muro, era riuscito a trovare un suo equilibro ed ora barcolla, adattandosi alla meglio e senza troppo successo.

Ed invece si ripiega sul bianco Vs nero. La trita e ritrita formula degli opposti si palesa, infatti, quando esigenze ereditarie fanno scontrare la famiglia di Jaeckie con quella dell’odiato, ortodosso e dimenticato fratello costretto a passare i 7 giorni di rigido lutto ebraico sotto lo stesso tetto. Da qui inizia la prevedibile spirale in vorticosa discesa che fa naufragare ulteriormente finanze e speranze di una possibile riconciliazione familiare. E’ a questo punto che ci viene ricordato che di commediola si tratta. In melensa ottica “volemose bene”, puntuali, ecco scendere copiosi appigli figli di una sceneggiatura, ahimé particolarmente forzata, per cercare di cominciare a salire dal baratro nel quale ci si era cacciati. Per ricomporre il puzzle cominciato, con incastri ad hoc, e poterlo così mettere in bella vista sopra il caminetto scoppiettante a suggellare l’happy ending moralista.

Il film non è comunque una porcata. Raggiunge una piena sufficienza, cui mi riservo di trasportarne la corretta quantità in stellette, grazie ad una buona prova d’insieme degli attori. La musica folcloristica ben accompagna il ritmo vario delle scene e oggettivamente ci sono alcune gag capaci di regalare momenti di pura ilarità. Ciò non toglie che mi aspettavo sinceramente di più e che questo "Zucker! Come diventare ebreo in sette giorni" assuma gli amari connotati dell’occasione persa.

ilfreddo

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