Il nuovo film di Danny Boyle fa un paio di cose importanti e, soprattutto, le fa molto bene.

In primo luogo, “28 anni dopo” sembra riscrivere la grammatica cinematografica dei film di zombie, riformulando lo stile di un genere che ormai rischiava di risultare stantio, se non respingente.

In secondo luogo, Boyle sembra voler ricostruire una civiltà dopo averla distrutta. La Gran Bretagna annichilita dal virus della rabbia diffusosi in “28 giorni dopo” ora è inselvatichita, regredita, medievale. Uno scenario perfetto per un discorso sui valori, sull’epos e sull’ethos.

Lo stile registico di quest’opera è particolarmente curato e meditato. Impossibile accontentarsi delle solite dinamiche zombie (pensiamo allo stillicidio di “The Walking Dead”), serviva una formula che svecchiasse tutti quegli stilemi ormai logori.

E allora ecco le inquadrature inaspettate (non c’è mai un mostro che cammina lento con le mani avanti, per fortuna), il montaggio fortemente ellittico o comunque “deviante” (immagini di film dedicati al Medioevo come spunto simbolico), la musica in contrasto con la narrazione, il rallenty per enfatizzare le uccisioni (ogni volta che una freccia va a segno), le panoramiche sui paesaggi (anche nei momenti di pathos), gli zoom strettissimi sui mostri.

Sembra un’opera saggio: come fare a svecchiare un genere ormai consunto?

Lo stile alterna un raffinato gusto estetizzante (i prati in fiore, il mare al tramonto, i paesaggi verdeggianti del “nuovo mondo”) e un taglio più action-videoludico quando il giovane Spike va a caccia di infetti con il padre. Boyle sembra voler citare anche alcuni grandi videogames. Penso a “The Last of Us”, ma anche i due recenti “God of War” dove padre e figlio si muovono tra i nemici in ambienti minacciosi, ma nel frattempo parlano, si confrontano, litigano persino e crescono, soprattutto. Cambiano.

Ed è qui che ci agganciamo alla storia. Un po’ racconto di formazione, un po’ palingenesi di una nuova epoca con chiaro riferimento politico alla Brexit. Dopo il contagio, infatti, il Regno Unito è stato messo in quarantena, isolato dal resto del mondo. Un isolamento catastrofico, e infatti la vicenda prende le mosse da Lindisfarne, isola tidale al largo della costa nord-orientale dell’Inghilterra, dove un gruppo di persone è riuscito a costruirsi un angolo di salvezza grazie alle maree che periodicamente coprono la striscia di terra che collega l’isola alla terraferma.

Un piccolo microcosmo senza grandi risorse, ma con “nuovi” valori e usanze. Un paesello che mostra come l’uomo di oggi, senza corrente, automobili e merendine, non sarebbe tanto diverso da quello medievale. Nei riti, nelle paure, nei valori, nelle pratiche. Così, tra alterne questioni, Spike e suo padre partono per una missione sul “continente”, per recuperare risorse ma soprattutto per fare esperienza, per vivere l’adrenalina delle uccisioni.

Toccherà al giovanissimo Spike accorgersi delle ipocrisie di quel sistema che suo padre sembra conoscere così bene, e in qualche modo ribellarsi ai nuovi valori medievali. E quando finisce il Medioevo? Beh, quando la scienza irrompe con le sue verità non banali, quando non ci si arrende più alla ferocia del contesto ma si trovano soluzioni intelligenti, quando si onorano i morti, quando si risparmia la vita anche ai mostri.

All’apice del simbolismo, un bambino nato da un’infetta e salvato dalla madre (morente) di Spike rappresenta un segnale forte di rinascita. Per continuare a vivere come genere umano (o britannici) dobbiamo accettare il “diverso”, abbracciarne la prole come figli nostri. Un altro messaggio fortemente politico.

“28 anni dopo” funziona benissimo perché unisce con uno stile freschissimo il genere action, leggero e dinamico, e quello post-apocalittico, così concettuale e ponderoso. Tra archi e frecce, tra fuochi e teschi, Boyle costruisce una traiettoria umana ancora solo abbozzata, ma già pienamente significativa.

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