"Questa è la mia versione di un album di stand-up comedy. La maggior parte dei miei amici più stretti non sono rapper, ma comici e attori. Così ho voluto creare qualcosa che mescolasse umorismo e musica. Qualcosa che fosse divertente ma non una parodia."

Danny Brown è un rapper che soltanto negli anni 10 avrebbe potuto avere una carriera.

Apro la recensione con questa provocazione non con il fine di ledere la dignità di un artista poliedrico e bizzarro, ma per constatare come il genere abbia cambiato spesso il volto, fino a trovare spazio anche per i deliranti sproloqui di questo assurdo e indemoniato folletto, con all'attivo una delle discografie più caotiche a accattivanti mai concepite.

Innanzitutto, facciamo un po' di ordine: il nostro è il prodotto tossico dell'atmosfera suburbana e deviata di Detroit. Voce nasale, che ricorda molto il timbro di B-Real, storico frontman dei Cypress Hill, flow liquido e sinuoso, verve eccentrica e folle. Non ci vuole molto per catturare l'attenzione dei vertici, che però non riescono a trovargli una veste adatta per il grande pubblico.

"Sei bravo, spacchi, però, cazzarola, ti vesti con sti jeans stretti e la moda non lo prevede. Noi vestiamo largo. Come fai a rappresentarci?".si sentirà dire dalla G-Unit, gruppo pop emblema di quel periodo.

Fortuna vuole che i circuiti secondari fossero ben disposti ad accogliere a braccia aperte questo simpatico gremlin, che inizia a tirare fuori album e mixtape di spessore. Un percorso che lo conduce nelle grazie della monumentale Warp Record, dove darà alle stampe i suoi migliori lavori: "Atrocity Exhibition" e "uknowhatimsayin¿": ed è proprio sul secondo vorrei spendere qualche parola.

Prodotto sotto la supervisione di Q-Tip (ex A Tribe Called Quest), l'album rappresenta con ogni probabilità l'eposodio più rigoroso della carriera di Danny: meno ispido e sperimentale del già citato precedessore che lo aveva consacrato definitivamente, "uknowhatimsayin¿" è un prodotto ingiustamente bistrattato, considerato erroneamente come un progetto transitorio.

Intendiamoci, la volontà non è quella di voler sondare territori inesplorati come era successo con i precedenti, ma quella di dare alle stampe un simpatico divertissement, senza rinunciare però ad un certo eclettismo.

Quello che in apparenza appare come un semplice disco attaccato alla tradizione, è in realtà un excursus sonoro votato a rielaborare sonorità più classiche, dando loro una rinfrescata e riadattandole per il contesto contemporaneo che stiamo vivendo. Si viaggia quindi per 25 anni di black music, declinando il tutto in una chiave rap cupa e paranoica.

Un tappeto musicale denso, ricco di citazioni (l'arte del sampling qui è ad un livello sopraffino) e deliranti digressioni: si passa dalle atmosfere spaghetti western dell'opening "Change Up" fino ai ritmi sincopati di "Best Life", passando per il lento e ingombrante funk di "3 Tearz", che vanta una proderosa produzione di JPEG Mafia e la collaborazione dei Run The Jewels. Gli episodi migliori però sono nella onirica e tribale "Belly Of The Beast" e nella conlclusiva "Combat", una sorta di sudicia e oscura jam jazz.

Il tutto per reggere gli assurdi vaneggi del padrone di casa, che tra volgarità degne della peggiore trash comedy e crude introspezioni, mette completamentw a nudo il suo vissuto.

Un'opera sintetica, ma ricca di intuizioni notevoli ed episodi incredibilmente a fuoco, che non deve per motivo alcuno finire nel dimenticatoio.

Da recuperare assolutamente.

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